Re Lear
Milano, Teatro Strehler, dal 28 ottobre al 9 novembre 2025

Gabriele Lavia, qui nella duplice veste di interprete e regista, porta in scena con maestria tecnica e sapienza Re Lear, allo Strehler di Milano dal 28 ottobre al 9 novembre 2025, dopo il debutto dello scorso anno al Teatro Argentina di Roma.

Vetta irraggiungibile della drammaturgia shakespeariana, tragedia catastrofica, all’insegna dell’eccesso e del delirio, la vicenda è un susseguirsi di perdite e tempeste, reali e interiori. Il testo è denso di significati filosofici, politici e psicologici stratificati e strettamente intrecciati, che Lavia rende in modo attento e misurato.
L’immagine d’apertura - le scenografie sono di Alessandro Camera -  è in questo senso emblematica, con il suo aspetto caotico e decadente: è un teatro abbandonato, polveroso e a soqquadro, occupato da bauli, sedie rotte e capovolte e avvolto da una luce solitaria che si staglia su un fondale grigiastro. Un dominio ai suoi ultimi spasmi e un tempo ormai anacronistico: i costumi di Andrea Viotti sono preziose sculture di arte orafa che, in netto contrasto con la scenografia, rimandano a tempi e fasti ormai passati e, nel corso della rappresentazione, si fanno via via più povere e opache.
Lavia è il sovrano nel pieno delle sue angosce nichiliste e del suo pathos, un pathos che è però squilibrato e fine a se stesso, che nulla insegna e nulla può lasciare al suo personaggio, se non il senso di irrimediabile rovina e sconfitta. La sua interpretazione è intensa e, come di consueto, rigorosamente fedele al testo e alla tradizione accademica, senza eccessi retorici e orpelli virtuosistici. La regia è ben congegnata, consapevole, attentamente controllata e accurata. La scelta interpretativa è chiara: è nella disillusione e nell’intrico delle relazioni familiari che si scatena e consuma la tempesta. Vanitoso, superficiale ed egoista, su una mappa che è già un cielo solcato da lampi, Re Lear intende misurare l’affetto delle figlie: chiede a ciascuna di dimostrare con la forza retorica del solo eloquio il proprio affetto, assegnando loro, di conseguenza, il potere e una parte del regno.
La più amata, Cordelia, mossa da una cieca morale e da un principio di Verità che esclude qualsiasi mediazione terrena e calcolo politico, in prima battuta delude profondamente le aspettative paterne, rifiutandosi di adempiere alla richiesta. Goneril e Regan, astute, avide e corrotte, sanno come persuadere il padre e si pronunciano in vuote lusinghe, che ben presto lasciano emergere un quadro relazionale del tutto utilitaristico, interessato e inautentico. Di fronte al tradimento filiale, divorato dal senso di abbandono, costretto ad una radicale perdita di identità e valore, spogliato di ogni autorevolezza, Lear scivola progressivamente nel dolore e nella follia.
Il binomio Follia-Verità è di sicuro tra i protagonisti più ingombranti e affascinanti di questa immensa tragedia shakespeariana. Dalla hybris che guida le azioni sconsiderate dei giovani ma anche di un vecchio Re Lear inebriato dal suo stesso compiacimento; alla sfacciata sicumera di Cordelia che ritiene di essere nel Vero, anzi, di incarnare la Verità. Non bisogna cadere nella tentazione di ritenere la giovane amorevole figlia del Re, rappresentante di SophrosynePhronesis, le due più alte qualità care ai greci: temperanza, saggezza e capacità di muoversi con maestria nella vita pratica. Niente di tutto questo: Cordelia è folle quanto il padre e le sue sorelle. Forse ancora più di loro, proprio perché la sua è una condizione che non può e non vuole essere codificata dalle categorie prettamente umane della ragione. Già, perché la Verità sfugge di continuo al misero mortale, è situata in un’altra dimensione, inarrivabile, inavvicinabile, inconcepibile e irresistibile. In quella che, come di continuo ci rammenta il “povero” Matto, è la casa della Follia.
Lavia accompagna personaggio e spettatore nella caduta progressiva verso il tragico epilogo e la demenza, lavorando sull’abbondanza e la variazione di registri linguistici, espressivi e movenze, con tonalità sempre più flebili, disperate e sconfitte. A sostenerlo un cast compatto: solidissima la prova di Luca Lazzareschi nei panni di Gloster, ingenuo e defraudato dal figliastro Edmund. Questi, materialista e cinico per eccellenza, è un energico ed entusiasta Ian Gualdani, anche se in alcuni passaggi sin troppo caricaturale. Spicca per piglio autoritario e determinazione la figura di Goneril, interpretata da Federica Di Martino. Ottimo Andrea Nicolini, qui il Matto, un buffone sarcastico, arguto e giocoso che si trasforma in più passaggi nel doppio di Re Lear: è il personaggio che meglio di svela i meccanismi e le contraddizioni delle scelte del sovrano bretone e verità profetiche, messo al riparo, com‘è, dalle conseguenze dalla sua condizione di folle.
La prestigiosa produzione di Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera, LAC Lugano Arte e Cultura è tutta giocata sull’asse dello scontro tra padri e figli: è un evidente conflitto generazionale tra “nonnetti” che faticano a leggere la realtà e i suoi meccanismi spietati e giovani che sottolineano costantemente quanto i primi, anziché farsi più saggi e comprensivi, siano del tutto incontrollabili e capricciosi. Soprattutto, a separarli in modo inconciliabile è la visione del mondo: se i padri sono segnati dal necessario confronto con la vecchiaia, con il declino cognitivo e fisico, ma faticano a “lasciar andare”, i figli sono dipinti con immagini bestiali di rapaci veniali e ingrati, che, con intrighi e tradimenti, cercano di strappare potere e prestigio politico.

 

La presente recensione si riferisce allo spettacolo del 28 ottobre 2025

 



RFE LEAR
di William Shakespeare

traduzione Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari

regia Gabriele Lavia

scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Giuseppe Filipponio
musiche Antonio Di Pofi
suono Riccardo Benassi

con Gabriele Lavia
e con (in ordine alfabetico) Giovanni Arezzo, Giuseppe Benvegna, Eleonora Bernazza, Beatrice Ceccherini, Federica Di Martino, Ian Gualdani, Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Giuseppe Pestillo, Alessandro Pizzuto, Gianluca Scaccia, Silvia Siravo, Lorenzo Tomazzoni

assistenti alla regia Matteo Tarasco, Enrico Torzillo
assistente alle scene Michela Mantegazza
assistente ai costumi Giulia Rovetto
suggeritore Nicolò Ayroldi

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera, LAC Lugano Arte e Cultura


Cinquantatré anni dopo, Gabriele Lavia torna a Re Lear da protagonista

Dopo essere stato Edgar nella storica edizione firmata da Giorgio Strehler nel 1972, Gabriele Lavia torna a Re Lear, in scena al Teatro Strehler dal 28 ottobre al 9 novembre, questa volta nei panni dell’incauto sovrano che decide di dividere il regno tra le sue tre figlie. Una nuova produzione firmata da Teatro di Roma, Effimera e LAC Lugano Arte e Cultura, che rilegge la celebre tragedia come una dolorosa storia di perdite: della ragione, del regno, dei legami familiari.
«Il destino mi ha riportato a Re Lear, anche se avevo deciso di non farlo. Evidentemente Giorgio Strehler ha sentito e mi ha teso questa trappola»: a cinquantatré anni dal debutto dello storico spettacolo prodotto dal Piccolo, Gabriele Lavia torna al capolavoro di William Shakespeare. Se nel 1972 interpretava Edgar, ora veste invece i panni del protagonista, l’anziano sovrano che sceglie di dividere il regno tra le sue tre figlie, in base all’amore che dichiarano di provare per lui.
È una storia di perdite, come afferma Gabriele Lavia: della ragione, del regno, dei legami familiari. «Non resta che vivere in una tempesta – commenta nelle note di regia – Ma la tempesta di Lear è la tempesta della sua mente. La tempesta della mente dell’umanità, la morte dell’uomo che ha abbandonato il suo Essere. Ed ora vive il suo non-Essere nella Tempesta della mente, nella Tempesta che lo travolge. E tutti sono travolti. Tranne colui che più degli altri ha sofferto e può “essere-Re” della sofferenza come percorso di conoscenza. “Essere o non essere” sono certamente le parole più importanti di tutto il Teatro Occidentale e, come sanno (quasi) tutti, le dice Amleto. Subito dopo “essere o non essere” Amleto dice: “Questa è la domanda”. Come se la vita di ogni uomo, non solo di Amleto, che ogni uomo lo sappia o no, non fosse altro che porsi questa domanda. Re Lear, invece, “nega” questa domanda e decide per il “Non essere”, non essere più Re. Dare via il proprio “essere” (il proprio regno) è come dare via la propria ombra (come nel famoso romanzo). Nel momento in cui Re Lear non è più Re è solo “Lear”. E che cos’è Lear se non è “più” Re? Non è che un “uomo”. Uno come tanti che non contano nulla. Non è che “nulla”.  “Sono io Lear?” si domanderà disperato. Travolto dalla “tempesta” del “non essere”, Lear la attraverserà fino alla fine, fino all’ultimo dolore, quando l’uomo Lear, portando in braccio la figlia Cordelia morta, urlando, domanderà agli spettatori in platea e nei palchi del Teatro: “Siete uomini o pietre? Avessi io le vostre gole e i vostri occhi, urlerei e piangerei fino a mandare in frantumi la volta del cielo…”. In questo finale, colpo di genio, Shakespeare-Lear invoca le grida e il pianto di tutti gli spettatori come se fossero il Coro ideale per l’ultima scena del suo capolavoro. Le grida e il pianto “dentro” il “silenzio degli spettatori”. Un silenzio che è urlo di pianto.»


(fonte comunicato stampa)





Teatro Strehler

Largo Greppi – M2 Lanza
20121 -  Milano
Informazioni e prenotazioni
Tel: 02 21126116
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ORARIO SPETTACOLI:

Orari: dal martedì al sabato, ore 19.30; domenica, ore 16.
Lunedì riposo.

Durata: 3 ore e 30 minuti incluso un intervallo


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