Verdi è tradizionalmente interessato nelle sue opere alla narrazione di argomenti forti concentrandosi spesso su personaggi tagliati fuori dal consesso sociale.
Nel Trovatore riesce a fondere una storia melodrammatica incentrata sulla battaglia del Conte di Luna e del trovatore Manrico per il cuore di una donna, Leonora, innestandovi altresì una seconda narrazione più politica che apre una riflessione sulla persecuzione dei rom nel XV secolo in terra di Spagna. All'epoca in cui l’opera venne elaborata, il loro stile di vita itinerante era identificato come romantico e misterioso, ma anche, in egual misura sospetto e indesiderabile e, in quanto indovini ed incantatori, ispiravano sentimenti contrastanti di attrazione e timore in egual misura. La regia di Davide Livermore cala la narrazione in un universo post-apocalittico e distopico costituito da tetre periferie urbane, edifici in rovina, cavalcavia desolati, scabri tralicci e linee d’orizzonte in fiamme. Per guadagnare profondità alla messa in scena risulta funzionale il continuo ricorso ai cangianti video su led wall D-Wok. Soluzione suggestiva e di effetto, senza dubbio - come gradevoli appaiono le belle luci calibrate sul rosso, l’ocra e il vermiglio - ma non particolarmente innovativa se si regge in sostanza sull’idea di proporre una continua opposizione tra i mondi e panorami scintillanti della buona società e il degrado e l’algida fatiscenza dell’universo gitano; in tale impianto si muovono le solite e fruste divise e armi nazistoidi dei cattivi e campeggia una tavolozza asfittica alla Gotham City nella quale il Conte di Luna appare un Vincent Vega appena uscito da un ciak di Pulp Fiction. E a poco vale qualche isolato guizzo, come il tentativo di sostituire il quadro claustrale di Leonora con un ospedale popolato da suore-infermiere e covo dei partigiani dell’eretico Urrel, se tutto è banalmente costruito su associazioni visive piuttosto elementari e senza particolari implicazioni tese ad imbeccare continuamente lo spettatore.
Sebbene nel Trovatore il ruolo di Manrico venga spesso tratteggiato come quello di un tenore “pesante”, siamo abbastanza lontani dai cimenti più impegnativi per la categoria come in Aida, La Forza del Destino o Otello. Ci troviamo nel registro medio e raramente la scrittura supera il la naturale. Per converso, i ruoli di Leonora, Conte di Luna e Azucena sono estremamente impegnativi in quanto richiedono un'estensione vocale completa in basso ed in alto, frasi legate incredibilmente lunghe - la maggior parte delle volte nel registro superiore - coloratura audace e grande drammaticità: voci, in definitiva, in grado di suscitare forti sentimenti di passione, amore, odio e rimorso. Roberto Aronica come Manrico: offre una buona prova complessiva, anche se appare spesso prigioniero del ruolo di tenore spinto; l’emissione è talvolta forzata e le dinamiche piuttosto schiacciate sul forte e mezzo forte. Leggermente calante nell’ “Ah sì, ben mio”, opta per un tono sotto cantando un si naturale nel “teco” e un si bemolle un po’ opaco nell’ “allarmi” invece del do finale ormai invalso nella tradizione della cabaletta della Pira (ma Verdi scrisse sol in partitura!) proposta con il da capo e risolta, nel complesso, con discreta convinzione ed eroicità. Marta Torbidoni ha una voce dal timbro variegato, di buon volume, ma ben proiettata con una coloratura pulita, acuti emozionanti e una notevole capacità di sostenere i pianissimo anche nelle note più alte. La sua Leonora canta frasi agili e ascendenti con una bella fioritura vocale, con cadenze adeguate e ben contenute; nella difficile "Tu vedrai che amor in terra" affronta la pioggia di ottave con bravura ed ottimo controllo. In "Tacea la notte placida" ha messo in mostra la splendida linea legata optando per la cadenza originale che arriva fino al do acuto e nel “D'amor sull'ali rosee” ha ben gestito le lunghe frasi legate culminate nelle note più acute.
Lucas Meachem ha interpretato il ruolo del Conte di Luna senza appiattimenti al netto di qualche consonante da sgrezzare; nel “Tacea la notte!” la sua voce era elegante e commovente offuscando persino i tratti più ripugnanti del personaggio e virando rapidamente nel trio dove ha acquisito forza mentre il controllo del respiro è risultato ottimo durante il fraseggio in staccato. Ne “Il balen del suo sorriso” scivola senza difficoltà dal mezzo piano al forte appassionato riuscendo sempre a mantenersi in ambiguo equilibrio tra romanticismo e malvagità del personaggio. Chiara Mogini, come Azucena, mostra buone abilità drammatiche nel disegnare un’anziana donna angosciata, vulnerabile e vendicativa. Nella difficile “Stride la vampa!” che ha una tessitura di contralto diabolica centrata sulla parte inferiore della voce, ha mostrato la tragedia del personaggio con un bel sol acuto risonante e minaccioso e note basse solide. Bella anche la diversa coloratura delle sue frasi durante le numerose ripetizioni del "mi vendica", e le mezze voci e i pianissimo ne "Ai nostri monti" durante il quarto atto. Gianluca Buratto, nel ruolo dello scagnozzo del Conte, Ferrando, espone con incarnazioni diaboliche il personaggio. Nella enunciazione degli orrori, durante il prologo nell'atto di apertura, ostenta un basso sonoro dal timbro ricco e risonante tipico del colore verdiano denotando abilità nei recitativi e agilità nell'aria “Abbietta zingara, fosca vegliarda”. Tra i ruoli secondari spicca Benedetta Mazzetto che ha cantato il ruolo della serva Ines con bellezza, trasparenza tonale e chiarezza. Il direttore Renato Palumbo, un veterano del titolo, ha evidenziato una solida conoscenza e un intenso studio della partitura verdiana non rifuggendo anche da alcune apprezzabili declinazioni veriste; gli ensemble - come “E deggio e posso crederlo” - erano ben bilanciati con i solisti in risalto e il coro che sosteneva la potenza in un frangente cruciale. Il profondo assorbimento nella direzione si esprimeva nella padronanza della scrittura, guidando a volte la trama; altre volte dilatando i tempi staccati per consentire l'assorbimento delle battute chiave - “Hai osato ammettere di amarlo” - preparando così alle fasi più concitate - o trasmettendo l'ineluttabilità del destino nel passo che accompagna il racconto di Azucena sull’avanzamento della madre verso il rogo nel “Condotta ell'era in ceppi.” La direzione è sempre con lo sguardo rivolto al palcoscenico garantendo una completa coesione ed armonia tra tutte le componenti musicali. Il vibrante canto del coro, preparato dal maestro Gea Garatti Ansini ha denotato una grande affinità con lo stile verdiano e, insieme all'orchestra, sono stati parte del collante che ha elevato la qualità artistica di questa produzione; bilanciato nel concertato conclusivo del secondo atto e toccante nell’Adagio del Miserere del quarto. Sempre attento alla evoluzione drammatica, ha declinato di conseguenza la sua presentazione, con una puntuale enfasi sui mutamenti dinamici, attenzione alla colorazione vocale e una nitida caratterizzazione degli stati emotivi.
Foto: Andrea Ranzi |
“IL TROVATORE” Dramma lirico in quattro parti su libretto di Salvadore Cammarano, tratto dal dramma El Trovador di Antonio García Gutiérrez. Musica di Giuseppe Verdi Conte di Luna: Lucas Meachem Leonora: Marta Torbidoni Azucena: Chiara Mogini Manrico: Roberto Aronica Ferrando: Gianluca Buratto Ines: Benedetta Mazzetto Ruiz: Cristiano Olivieri Un vecchio zingaro: Sandro Pucci Un messo: Andrea Taboga Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna Direttore Renato Palumbo Maestro del Coro Gea Garatti Ansini Regia Davide Livermore ripresa da Carlo Sciaccaluga Scene Giò Forma Costumi Anna Verde Luci Antonio Castro Video D-Wok Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna con Teatro Regio di Parma
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