Gli esperimenti di Verdi con la Grand Opéra francese sono stati sempre estremamente interessanti. Questo vale non solo per l'ambientazione dei Masnadieri da Schiller, Don Carlo o per il primo lavoro Jérusalem, ma forse di più per Les Vêpres Siciliennes giunti in ItaIia come Vespri Siciliani solo nel contesto storico della raggiunta indipendenza.
L'opera copriva tutti i requisiti richiesti dal committente parigino: cinque atti, un grande balletto nel terzo atto, messe corali, uno sfondo storico che permea l'intera opera e un linguaggio tonale svelato e magnifico. Qui Verdi dimostra per la prima volta la sua capacità unica di fondere pubblico e privato in un insieme drammaticamente coerente. Musicalmente La Traviata è ancora molto vicina, soprattutto nei recitativi. Sullo sfondo del salmo penitenziale "De profundis clamavi", cantato dai monaci, nel registro acuto i violini intonano una melodia in pianissimo di re bemolle maggiore (già introdotta nell'ouverture) che viene virata in minore; un pattern sonoro di disperata malinconia che Verdi aveva già tratteggiato due anni prima proprio all'inizio del terzo atto del menzionato capolavoro. Già nelle prime battute del preludio, si avverte il Verdi musicalmente maturo; i raffinati giri e spostamenti armonici e ritmici e l'efficace vivacità della strumentazione rivelano l'emancipazione del compositore dai suoi modelli Donizetti e Bellini. Questa è forse la prima opera in cui il compositore impiega costantemente uno dei suoi migliori trucchi: modificare l'accompagnamento ogni volta che fa capolino una nuova melodia. In quest'opera l'autore ha ritratto il conflitto padre-figlio con toni ingegnosamente corteggianti, supplichevoli ed esigenti. Contrappone il campo dei francesi, la cui arroganza e raffinatezza è nei cori soldateschi, a quello dei contadini siciliani, inizialmente indolenti, ma poi ciecamente sferzati dalla rabbia. A volte si crede già di sentire toni del tardo Verdi quando tratteggia i sentimenti delle due folle infuriate l'una con l'altra. Riesce inoltre a soddisfare il "gusto parigino" inserendo passaggi di balletto molto estesi nelle scene del palazzo, mettendo a contrasto il mondo scintillante e colorato dei ballerini con i pensieri foschi di vendetta e la rabbia repressa dei patrioti siciliani. E a quest'opera furba in quanto dotata di due “passaporti”, uno italiano e uno francese, che rappresentata in Francia fa fare bella figura ai francesi, rappresentata in Italia appare patriottica, finisce per mancare, senza balletto, proprio il suo carattere francese. Il tema della morte è pervicace: chi uccide un altro essere umano uccide anche una parte di se stesso; il corso dell'azione di cui sono quasi in balia i personaggi interiormente lacerati e contraddittori dell'opera, acquista il senso psicologico e letterario di un incubo. A volte i protagonisti optano per i legami familiari, talaltra per la lotta per la libertà. Non sanno esattamente cosa fare dei sentimenti da un lato e delle convinzioni politiche e ideologiche dall'altro. Gli esseri umani sono determinati dai sentimenti tanto quanto dalle teorie, e talvolta queste superano i primi. Non sappiamo mai esattamente dove corra la strada per la felicità ed è così che ci troviamo immedesimati in un crinale: lacerati, mostruosi e amabili allo stesso tempo. La regia di Emma Dante plasmandosi attorno al taglio dei Ballabili delle Quattro Stagioni, prova a decontestualizzare e ad attualizzare l'opera trasformando la ribellione contro i francesi del 1282 in una questione tutta intestina contro la tracotanza, e la barbarie della mafia. Palermo viene disegnata come una città aperta, lacerata, oltraggiata, nella quale endemicamente coesistono oppressi ed oppressori. L’operazione però riesce solo in parte; la regia regala vari momenti di interessante impatto scenico: lo scorcio della Fontana Pretoria, il bel contrasto della Provvidenza che solca il mare di tenebre riconducendo in patria Procida, i pupi siciliani esanimi durante l’esecuzione delll’ouverture, l’essenziale prigione semovibile circolare di Arrigo ed Elena; ma la sensazione prevalente è di uno scardinamento della coerenza originaria dell’opera e di un suo piegamento ad una narrazione che necessita di una continua, costante e faticosa puntualizzazione attraverso il ricorso quasi ossessivo ai gonfaloni delle vittime di mafia o alle lapidi con i nomi delle strade e delle piazze che sono state il palcoscenico delle innumerevoli stragi mafiose. Per converso, altre soluzioni quali: le spose sigillate in sacchi di plastica, Arrigo ed Elena torturati in uno scenario alla Gomorra dentro fusti radioattivi, la metaforica mattanza finale dei tonni/mafiosi (incomprensibilmente rimasti in braghe di tela) sono apparse caricaturali e di dubbia efficacia e declinate con un didascalismo a tratti grottesco. Il baritono Franco Vassallo ha fornito a Monforte una figura convincente sia come sovrano crudele che come padre amorevole pur non avendo la morbidezza cui ci hanno abituato i grandi interpreti del ruolo, ma bisogna riconoscergli un’apprezzabile sicurezza vocale anche se l’emissione non è sembrata sempre perfettamente a fuoco soprattutto nell’aria del terzo atto “In braccio alle dovizie”. Procida, il capo cospiratore, era Riccardo Zanellato, solido in acuto ed in grave; ha convinto con un basso potente, un'emissione morbida ed attenta, fraseggio elegante e nobiltà d’accento propria dei bassi verdiani. Il soprano Roberta Mantegna, alle prese con un ruolo difficile tra spinto e coloratura, propone dei bei pianissimo, ma non ha la voce per la duchessa che vibra di orgoglio, disprezzo e sete di vendetta. Conferisce al personaggio una grazia eterea, con un luminoso registro acuto, ma non riesce a fornire la potenza necessaria nel registro medio. L'impetuosa cadenza del quarto atto “Arrigo! Ah, parli a un core” è suonata piatta e instabile. L'incandescente terzetto finale ed il celebre “Bolero”, cantati con buona eleganza, sono apparsi un po’ approssimativi nella resa che dovrebbe essere elegiaca, ricamata sul fiato e cesellata sull'accento. Migliore invece nello scivoloso secondo duetto del quarto atto che chiude con una convincente corsa dal Do acuto alle ottave di Fa diesis sottostanti. Arrigo trova in Stefano Secco un interprete instabile negli acuti, più stabile nel registro medio, ma unidimensionale nel colore e nel suono pur con una buona presenza scenica. In difficoltà nelle perigliose ascese sovracute è parso costantemente al limite. I trii ed i quartetti dei Vespri sono pieni di spigoli e sottolineano impietosamente l’asimmetria tra voci ineguali. L'ensemble di supporto, Bethune di Gabriele Sagona, il Vaudemont di Ugo Guagliardo, la Ninetta di Carlotta Vichi, il Danieli di Francesco Pittari, il Tebaldo di Manuel Pierattelli, il Roberto di Alessio Verna e il Manfredo di Vasyl Solodkyy è risultato solido, mentre il coro diretto da Gea Garatti Ansini, ed integrato da elementi del Regio di Parma, si è esibito, quando messo nelle migliori condizioni, in modo nobile e preciso denotando piacevole chiarezza e purezza soprattutto nei passaggi lirici più articolati; amabile nel denso ostinato di crome ripartito tra il solista e il coro, staccate in pianissimo nell'unisono dagli archi in "Ai nostri fidi nunzio" del secondo atto e nella festosa resa delle amiche inneggianti all'imene in Fa maggiore che lancia il bolero. La direzione di Oksana Lyniv è purtroppo apparsa carente nel controllo complessivo di orchestra, cantanti e coro, mancando di spinta e forza propulsiva così essenziali per il repertorio verdiano; l’ouverture è risultata modesta, privi di mordente e assenti di slancio i concertati e opachi alcuni attacchi. Peccato perché la pur valida esecuzione dell’orchestra bolognese è stata penalizzata da una approssimativa gestione delle dinamiche molto sbilanciata sulla prevalenza di percussioni e ottoni.
Foto: Andrea Ranzi
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I VESPRI SICILIANI Dramma in cinque atti Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier Musica di Giuseppe Verdi Direttrice: Oksana Lyniv Regia: Emma Dante Maestro del Coro: Gea Garatti Ansini Interpreti: Guido di Monforte: Franco Vassallo Il signore di Bethune: Gabriele Sagona Il conte Vaudemont: Ugo Guagliardo Arrigo: Stefano Secco Giovanni da Procida: Riccardo Zanellato La duchessa Elena: Roberta Mantegna Ninetta: Carlotta Vichi Danieli: Francesco Pittari Tebaldo: Manuel Pierattelli Roberto: Alessio Verna Manfredo: Vasyl Solodkyy Orchestra Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
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