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Neil Young & Promise of the Real
Earth

Non vorrei sembrare blasfemo ma, più passa il tempo e più mi convinco che Neil Young si pieghi a leggi matematiche ben precise: per un disco molto bello che pubblica, ce ne sono una manciata appena sufficienti e almeno uno di tenore scarsissimo.
Questa statistica non riguarda ovviamente i live, soggetti a dinamiche ben diverse, legati, come sono, alla capacità dell’artista di sapersi reinterpretare mantenendo integro il proprio substrato artistico piuttosto che a quella di reinventarsi con nuove composizioni (che è l’approccio tipico di Young quando si misura con gli album in studio, non sempre perseguito con successo, come detto in apertura). 

Difficile trovare un live brutto del canadese, a dirla tutta, anche quando egli sterza verso sponde non proprio di specifica appartenenza, che si tratti dei sentieri country o weast coast di A Treasure (del 2011) o della confortante compagine soul e rhythm & blues di Blunote Cafè (che, pur essendo pubblicato nel 2015, documenta show registrati nel corso del biennio 1987-1988. Lo abbiamo recensito qui).

Ed infatti, questo nuovo capitolo dal vivo, pur con alcune riserve, è certamente promosso. 
Sempre ostinatamente in guerra contro chi mina gli equilibri del globo terrestre, il nostro collaziona tredici pezzi dal sapore marcatamente ambientalista e, con rinnovato piglio di protesta costruttiva, accompagnato dai Promise Of Real (band che in organico annovera entrambi i figli di Willie Nelson), sensibilizza il pubblico su tematiche squisitamente ecologiche di grande attualità. 
Certo, se da un lato risulta difficile condividere Young quando asserisce che la sua attuale backing band “ha il fuoco dentro" - giacché è evidente che i giovani sono privi della compianta rustica attitudine dei Crazy Horse - dall’altro non si può negare che i cinque giovani musicisti dimostrano di saper tenere lo stesso passo del cantante, cosa oggettivamente non facile per chiunque. 
Il risultato è molto più che apprezzabile: se il concept che sta dietro alla selezione della tracklist obbliga da un lato a scartare brani storici piuttosto irrinunciabili (ma con Young, questo pericolo è sempre dietro l’angolo), dall’altro permette il recupero di gemme, antiche o recenti, che non possono non essere egualmente apprezzate. 
Ecco così che – pur in presenza di ben quattro estratti dal non meraviglioso The Monsanto Years (lo abbiamo recensito qui) rinasce a nuova vita “My Country Home” (ma non  “Mother Earth”, stucchevole e tediosa, entrambi da Ragged Glory, uno degli album più energici della discografia), oppure “Western Hero”, summa artistica del rarefatto ed introspettivo Sleeps With Angels e, a sorpresa, un pezzo sottovalutato come (il forse autobiografico) “Hippie Dream”, prelevato da uno degli album meno deprecabili del periodo Geffen (Landing On Water). 

Estratto dal cilindro anche l’inedito “Seed Justice” (fino ad oggi noto come “I Won’t Quit”) e ripescato il fresco e gioioso “Human Highway”, dall’agreste Comes A Time, il nostro non manca di percorrere gli amati territori psichedelici con l’irrinunciabile suggestione magnetica di “Vampire Blues” (da On The Beach) o la malinconica attitudine di “After the Gold Rush”, fino ad arrivare all’apoteosi del concerto, “Love & Only Love”, brano qui incredibilmente e meravigliosamente esteso a più di 28 minuti di durata, sublimazione della massima vocazione alla jam ipnotica e seducente.

Pur nella convinzione che la trovata di coniugare applausi del pubblico con vari overdub (che includono, tra gli altri, clacson e altri rumori metropolitani, versi di cavalli, balene, galline, orsi, finanche ronzii di insetti), non suona proprio come una novità, se non nel merito, quantomeno concettualmente (ma Young ne ha voluto fare uno dei cavalli di battaglia dell’intero album, dichiarando in proposito: “Tutti i suoni della natura sono al posto giusto e nessuno di essi confligge con la musica”), l’album ha una sua oggettiva validità antologica e re-interpretativa che, se non lo fa competere con gli inarrivabili masterpiece del passato (Live Rust, Rust Never Sleep), anche recente (Year of the Horse, Road Rock Vol.1), permette di consigliare questa nuova uscita discografica addirittura ai neofiti dell’artista nord-americano senza correre alcun rischio di deluderli.





 

Neil Young: vocals, guitar, piano, harmonica
Lukas Nelson: vocals, guitar
Micah Nelson: guitar, vocals
Corey McCormick: bass
Anthony LoGerfo: drums
Tato Melgar: percussion


Anno: 2016
Label: Reprise Records
Genere: Rock


Tracklist

01. Mother Earth
02. Seed Justice
03. My Country Home
04. The Monsanto Years
05. Western Hero
06. Vampire Blues
07. Hippie Dream
08. After The Gold Rush
09. Human Highway
10. Big Box
11. People Want to Hear About Love
12. Wolf Moon
13. Love & Only Love



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