“...con un alito tremendo ti ho sussurrato all'orecchio "bonjourn mon amour" aprendo la finestra sopra netturbini, sopra i nottambuli svetta la gigantesca scritta coop.” Parte da Rino Gaetano, Vasco Brondi, in arte Le Luci della Centrale Elettrica. Ma le intenzioni sono di arrivare da tutt’altra parte, lontano dalla critica sociale goliardica e carnevalesca del cantautore crotonese, lontano da certo romanticismo “Hey, guardami! Sono decadente” da supermercato. Piuttosto siamo dalle parti di un obliquo realismo pasoliniano capace di risvegliare l’anima poetica delle città sotterrata da un magma di cemento e luci. ...i semafori cominciavano a lampeggiare arancione mi puoi spiegare il colore acciaio del cielo le sfumature di grigio di cui ti parlavo del cielo berlusconiano di Milano Milano era veleno, Milano era veleno e il paradosso del cielo notturno illuminato a giorno da stelle deficienti da stelle col tuo nome, tifosi violenti arruoliamo brigatisti arruoliamo brigatisti... ... ovvero come sviscerare l’Italia escludendo ogni rischio di eloquenza politica, ma trasformando il reale in astratto, astratto poetico, elegiaco, astratto che pesa come un cassonetto di periferia, come una siringa abbandonata in un parco. Partire dalle piccole questioni cittadine (Milano da bere, Milano da pere) ed approdare a porto della coscienza comune, a quello che potrebbe essere il più grande inno generazionale di questo nuovo millennio: per ammazzare il tempo ci siamo sconvolti! o una delle tante rivelazioni di un’esistenza (a)tipica: mi sa che hanno i fanali accesi per investirci. E ora c’è da chiedersi perché la voce di questo giovane di periferia sembri non appartenere a nessuno, tanto continua a rimbombare nella testa, come Verbo di una società in cui tutti sognano porno, si va ad abortire tra le mimose, per sbaglio si lava il cielo con la candeggina. La società del tutto che soffoca il singolo, la società dell’Io che chiede vendetta per il sopruso dell’imbavagliamento, del dover sottostare. Perché a parlare con così tanta crudeltà e poesia ci vuole solo la consapevolezza di chi ha ancora qualcosa da guardare davanti a sé; perché chiedersi “perché non ci si è mai rincorsi come nei film melodrammatici di merda, invece dei dormitori per i tossici, delle sere feriali a verniciare treni infermi ?” corrisponde al non vedere nulla davanti a sé, nulla di degno, tanto da rivolgersi al passato con più interrogativi che certezze: dover già tornare indietro con palle piene da svuotare urlando nei marciapiedi. Il disimpegno e la disillusione (con i nostri discorsi seri si arricchiscono solo le compagnie telefoniche); l’idillio e l’urbanesimo (fare passeggiate su spiagge deturpate). Il lamento perpetuo e riecheggiante della nostra Italia, l’ultimo colpo di coda del cantautorato italiano così come dovrebbe essere: grezzo, slabbrato, realista, capace di colpire fino a far sanguinare. Un esordio che vale tutto il risveglio, il dopo-ascolto in cui sentirsi invidiosi delle ciminiere (perché hanno sempre da fumare) e di Vasco Brondi (perché ha la faccia dell’uomo normale e il sangue nelle vene). 85/100
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Vasco "Vlad" Brondi: Chitarra, voce Anno: 2008 |