Per Dave Gahan il tempo del tormento e del dolore è finito da tempo.
IDopo 10 anni passati in caduta libera nell’inferno personale delle rockstar, fatto di droghe e autolesionismi, rimangono segni incisi in profondità, difficili da cancellare. Per il cantante dei Depeche Mode, l’espiazione è stata dolorosa quanto ciò che l’ha preceduta. Non è stato facile per lui liberarsi di quella immagine patinata di cui era prigioniero e di cui sarebbe stato una vittima, trascinato nel baratro dopo il Devotional Tour del 1994. Un’emancipazione iniziata nel 2003, con la pubblicazione del suo timido esordio solista “Paper Monster”, e proseguita in Playing the Angel, l’ultimo disco della band inglese, il primo a contenere brani scritti da Gahan. Una parabola artistica segnata dunque da una speculazione ossessiva incentrata sul tempo, suo salvatore e suo mentore astratto. Il tempo immaginato da Gahan è un paesaggio buio e infinito, dove la distanza tra inizio e fine appare piccola e infinitesimale, come il granello di una clessidra. “Down on the ground, there’s no one around, and the snow is falling”, canta in Down, ed è come tornare a quel 28 maggio del 1996, quando fu risputato tra i vivi, dopo tre minuti di morte clinica. Non mancano gli episodi di violenza elettronica (Use you), dove riemerge il lato mascolino e dannato della rockstar dei tempi che furono, ma sono eccezioni che confermano la regola. Certo, il sound è lo stesso degli ultimi Depeche Mode, ma è il sangue con cui è marchiato a dimostrare la paternità di “Hourglass”. La voce ultraterrena che spezza la vena claustrofobica degli arrangiamenti, il pulsare ritmico a volte invisibile a volte incalzante, l’apocalisse industriale di Deeper and deeper. Niente di nuovo, ma il tutto possiede un terribile, sinistro fascino. Bellissimo. 85/100
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David Gahan: Voce Anno: 2007 Sul web: |