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Parsec
Sulla Notte

Dopo due promettenti EP, i Parsec pubblicano il loro primo album. La band aveva colpito non poco con Reset del 2011: un post rock poderoso e di estrema qualità, che aveva raccolto consensi unanimi. Visto l'apprezzamento per le scelte musicali di quell'EP, ci si sarebbe aspettati per il disco d'esordio una riproposizione se non pedissequa, quasi; la scelta dei Parsec è però diversa e convincente. Le architetture post di Reset, debitrici di band fondamentali come Slint e Isis, vengono radicalmente asciugate nelle loro strutture, che si riducono a minutaggi più esigui ed anche accessibili. Ciò che però rimane è l'elemento chiave: le tessiture musicali non perdono nulla della loro cifra post. Gli intrecci sono ancora un volta inestricabili, ipnotici, distanti dagli schemi del rock tradizionale: ma questa volta non vengono adagiati su architetture frastagliate, magniloquenti, dilatate. No, i Parsec hanno virato verso un linguaggio più immediato, quasi un cantautorato post rock, in cui le texture di pregevole fattura vanno a costituire una sorta di fondale che ci affascina sì, ma da una certa distanza, mentre le parole arrivano frontali come aria gelida. È questo il senso di Sulla notte, non ripudiare lo stile passato, ma darlo per metabolizzato e quindi utilizzarlo con maggiore maturità, senza dover dimostrare quanto si è bravi, perché ormai lo sanno tutti.

L'iniziale “Audrey” è indicativa di quanto detto; l'apertura è in medias res, senza preamboli o lenti crescendo. Sembra un ritaglio di una texture di un pezzo magari lungo 8 minuti; ma “Audrey” ne dura nemmeno 4 ed è quasi sempre accompagnata dalla voce di Cavicchi. Per questo motivo diventa ancora più difficile colpire l'ascoltatore, ma i Parsec ci riescono grazie ad una scrittura musicale intelligente, funzionale alla resa emotiva del brano, che sa essere intricata e dispari quando deve oppure semplice, icastica, martellante quando è richiesto. Insomma, una scrittura pienamente matura.

Luci Al Neon” dimostra la stessa intelligenza e in 3 minuti alterna tessiture diverse; la prima metà vede il dialogo tra strofe dominate dalle chitarre thriller e il ritornello più veloce e coriaceo. Poi un sibilo apre la seconda parte, che ha tutte le caratteristiche della “fuga finale”, con ritmi sostenuti e una chiusura torrenziale in classico stile post rock.

Il tutto senza richiedere eccessivi sforzi all'ascoltatore, come potrebbero fare le forme più estreme di post rock; è questa la conquista più grande del disco, riuscire a portare all'ascoltatore un linguaggio immediato ma che poggia in realtà su tessiture tutt'altro che banali. La gestione si conferma ottima in tutti i brani: ad esempio in “Per Una Volta” c'è un cambio di atmosfera evidente circa a metà. Come in “Luci Al Neon” non è un cambio fine a se stesso: coincide con una svolta nella narrazione portata avanti con un parlato enfatico. E in chiusura ci sommerge una marea di effetti elettronici realizzati al synth.

Un iniziale cambio stilistico si ha con “Non Siamo Mai Stati Moderni”; gli intrecci fitti lasciano posto ad un'introduzione liquida, con il basso in evidenza. Poi, al cambio di direzione della storia, partono galvanizzati gli strumenti. Un concetto semplice quanto efficace e realizzato in modo impeccabile; un conto è avere l'idea, un altro è realizzarla con questa felicità nella scrittura, nella scelta delle note e dei timbri. Come non ricordare allora il finale tellurico, con un minuto di basso e tastiere poderose.

Il disco è insomma musicalmente molto valido; la formula individuata dalla band risulta efficace e sembra garantire una certa longevità: la fruizione non è ostica, ma il suono è talmente ricco che la voglia di riascoltare i pezzi più e più volte si fa irrefrenabile.

La scelta di utilizzare il parlato per i testi è comprensibile; un cantato difficilmente si sarebbe ben accordato a delle tessiture così frenetiche. Andava forse pensata meglio la cadenza vocale nella declamazione dei versi, o anche la modulazione della voce. Si rischia invece una certa ridondanza da questo specifico punto di vista. Ad esempio: avrei gradito maggiore trasporto come quello che si sente in “Il Testamento Di Un Uomo” quando si dice: «La vera disgrazia è non saper aspettare la primavera».

La qualità della scrittura di Samuele Venturi alterna molti dettagli di pregio («Il suo sorriso è come un fiore / che deve ancora sbocciare»), ad alcuni passaggi a vuoto («Alla fine dell'estate arrivò l'autunno»). Qualche minimo calo stilistico non impedisce però di affrontare una certa molteplicità di temi e soprattutto farli confluire nella dimensione esistenziale di un giovane d'oggi, che si muove tra bar, periferie estreme, taxi abusivi, ultimi piani di palazzi malfamati, campagne ghiacciate. Sono paesaggi che disegnano altrettanti paesaggi dell'anima: «Sono la periferia / di una città inesistente» (“All'Ultimo Piano”). Il cuore pulsante concettuale del disco è forse la rappresentazione di un momento di forte contrasto interiore, dovuto alle spinte contrarie dell'incertezza verso il futuro e del rimorso per il passato. Questo contrasto interiore si riverbera in molteplici situazioni, ma quella privilegiata è la sfera amorosa, che infatti chiude il disco in “Stoccolma”: i progetti futuri con la donna amata sono svaniti, il protagonista resta incastrato nel suo ricordo, un'oscura istantanea in bianco e nero. Sulla notte.


Federico Cavicchi: voce e chitarra
Samuele Venturi: chitarra e sintetizzatore
Gabriele Tassi: basso
Leopoldo Fantechi: batteria

Anno: 2015
Label: Waves for the Masses
Genere: Alternative Rock

Tracklist:

01. Audrey
02. Luci al Neon
03. Per Una Volta
04. Non Siamo Mai Stati Moderni
05. Un'Infanzia Difficile
06. All'Ultimo Piano
07. Il Testamento Di Un Uomo
08. Emile
09. Lo Straniero
10. Stoccolma

 


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