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Coldplay
Ghost Stories

Se penso che questa è una delle band pop-rock di maggior successo del pianeta mi vengono i brividi. Intendiamoci, qualche bella canzone l'hanno fatta, soprattutto grazie alle melodie di Chris Martin, ma negli ultimi dischi si stanno dimostrando incapaci di scrivere nuova musica.

Chitarra basso e batteria stanno a guardare mentre Martin si inventa qualcosa; Mylo Xyloto sopperiva in parte a questa “mancanza di musica” con una produzione lussureggiante che nascondeva le magagne degli scudieri di Chris.

Nel momento in cui si decide di fare un disco intimo, dalle sfumature tenui, senza coloriture elettroniche vivaci, tutta la pochezza del comparto musicale dei Coldplay viene a galla inesorabilmente. Più un disco è scarno, più la qualità delle chitarre, dei beat e di ogni singola nota suonata risulta decisiva per l'esito delle canzoni.

Praticamente non c'è nulla di interessante da notare. Mi sono sorpreso per la bella eco vocale di “Another's Arms”, ma poi ho scoperto che è stata presa da "Silver Chord" di Jane Weaver. Quando ho sentito il singolo “Magic” ho pensato: ridicolo! Ma la cosa spaventosa è che nel disco è uno dei momenti meno noiosi; una melodia dal fiato cortissimo, con un ritmo che imita male le mode recenti, dubstep eccetera.

Questa impostazione intimista risulta stucchevole per due motivi: non è sentita e sofferta, non le corrisponde un trasporto emotivo, come in illustri, e sideralmente distanti, predecessori: “How To Disappear Completely” e “Svefn-G-Englar” tanto per fare due esempi. In secondo luogo è contraddetta qua e là da uscite imprevedibili e stonatissime per il contesto: i synth finali di “Midnight” sono di cattivo gusto e fuori luogo, peraltro in una canzone che fallisce il tentativo di copiare James Blake e simili; mentre le esplosioni ultra-pop con jingle assortiti di “A Sky Full of Stars” potrebbero fare da sottofondo a una puntata di Amici di Maria De Filippi.

Anche quando si concentrano per risultare struggenti, i risultati sono patetici: la ripetitività senza variazioni di “Always in My Head” è inspiegabile. Come pensavano di fare una canzone così? Auto-indulgenza a palate. “True Love” è una melodia da diabete senza sussulti con una base anche più anonima. Appena simpatico il beat di “Ink”, ma i Radiohead del 2011 furono stroncati per cose molto più belle (non parliamo dei coretti).

L'album ha la capacità incredibile di farci rimpiangere le varie “Hurts Like Heaven”, “Charlie Brown” eccetera, che già erano una copia stinta dei veri Coldplay. Se non fosse per la voce sempre piacevole di Martin e per le sue melodie che bene o male tengono su la baracca, questo sarebbe un disco nullo: non ci sono idee, invenzioni musicali, trovate, colpi di genio: si è scelta una maschera da indossare e si esegue la parte senza passione, inventiva e anche senza tecnica, in fondo. Un buon chitarrista non potrebbe accettare di non suonare praticamente da due interi album.

Sicuramente molti penseranno che sia un disco intimo, commovente, spettrale eccetera, e non la copia senz'anima di un disco di quel tipo.

45/100

 

 




Chris Martin: voce, chitarra acustica, pianoforte, tastiera
Jonny Buckland: chitarra elettrica, slide guitar, pianoforte, tastiera
Guy Berryman: basso, tastiera, arpa laser in Midnight
Will Champion: batteria, drum machine, cori, ReacTable in Midnight

Anno: 2014
Label: Parlophone
Genere: Pop

Tracklist:
01. Always in My Head
02. Magic
03. Ink
04. True Love
05. Midnight
06. Another's Army
07. Oceans
08. A Sky Full of Stars
09. O

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