Il cd è un random di suoni e di colori timbrici. In primis "Back in wight" che è il coraggio di ridisegnare sui tasti della chitarra poche note che balzano sull’aria, è dissolvenza di pensieri e percorsi possibili su ritmiche folk e un po’ scozzesi. Un coraggio che è legame di parole e di sensi incollati sui canonici 4/4 di una misura che segua l’altra. Coraggio che involve tutto.
"Damn me" è un brano dal flusso continuo, una senza ostacoli che è una condanna, ancora, ancora senza dire di no, perché anche i dannati cercano proprie coordinate che non portano necessariamente all’inferno. E’ musica di paralleli e logaritmi di memoria. Uno stillicidio di fronti fredde schierate su un futuro che non delimita nessun Greenwitch che serri un ’equazione, solo sensi che infossano gloria e gioventù.Un finale che spesseggia di impudore come è tipico nei maxiepiloghi della vita. Damn me Damn me
"Le Human falls" è una fenomenologia della caduta, sia che si cada da una babele che da un acumine tibetano, qua e là è lo stesso, trovi sempre lingue confuse che ti staccano a pezzi. La cosa è descritta in accelerazioni e deliri di power chord che si impennano su manici di chitarra, allusioni a risalite e immediate ricadute. Un testo che racconta storie binarie e di vita dove anche le chitarre vogliono starci dentro anche solo per intermezzare. Chitarristi ercolai e cardatori di un tessuto che vogliono tappezzare gli inferni, quattro dita che si gonfiano in spring di memoria e di tecnica fino ai confini ammessi dell’uomo. Congestione, congestione, un suono che si fa affanno, diverticoli di cori nella parte finale, spocchia di semplicità e melismi inscenati al tragico, poi poche note a far cadenza e a ribadire niente più del niente. Per finale un colaticcio impastato per minuti ora si fa musica, una mimica del non più che si fa senso.
"Somebody left" è un apocalissi di riff e magnetizzate strutture di basso che accennano a orizzonti non noti, soste e riprese ritmiche tutto ben equilibrato fin quando un brusco the end allude ad un gusto degli apici che nelle filosofie del non ritorno non devono essere mai abbandonati. Ribattere le altezze, dissalarle e spargerci sopra acribie di sogno perché non c’è decoro nel ritorno e infondo non si torna mai indietro.
"Cry no more" è un pianto nascosto sotto giri armonici country, note glissate e wippate come sulla sabbia del deserto, in una specie di Arizona del sogno impastato di indie e di riti di passaggio, una confusione di strumenti che fa eppure armonia, un ballo che si rieterna sui sentieri e nei canyon, con chitarre un po’ congestionate per ripercorrere i river in contromano, tra lucidi e seri incontri con indiani ,ireniche stratocaster che sparano note su mucchi di winchester arrugginiti
"Happiness"..La felicità è un tono è un gradiente di vita, è un incorporare tanta più aria possibile, al ritmo giusto e ad una maniera forse un po’ beatlesiana, il basso intensifica schemi di crome e biscrome, tutto lineare fino al secondo minuto del brano, quanto un riff concepito nei canoni del rock delle origini fa lavorio insieme ai plettri che raschiano sui bending, sui double stop, ecco yankee a cavallo ormai storditi dalla polvere.
"Dark in my soul". La notte nell’anima la senti in una serata cheyenne quando una capanna ipostatizza tutte le stelle del cielo, è impossibile contarle, tra il maggiore e il minore della tonalità scorre un disgusto, che poi diventa wagneriano stillicidio di leitmotiv appesi l’uno all’altro, in fantomatiche prese di suono e ritmo, un ritmo apache, forse anche sioux, qualcosa di meta metropolitano, una gragnola di note che fanno atterrare il pezzo sui suoi time out. E’ un groviglio di scale indiane miste ad un modale medievale, un lago asciutto che svela versi antichi che se ne vanno nell’aria verde di pianura.
"Untitled". Innominabile. Inzia con una chitarra modale,, che fa uno strumming lineare, si incunea su accordi di sottodominante, ci gira intorno e poi si crea proprie scie in nuove tonalità, poi il brano di apre ad estuario, le emozioni dilagano ,prima narrano e plottano una storia impossibile, con quel cupo che hanno le storie che si sviluppano per fimusi, da un origine per epilogare in ettolitri di vuoto che marcano anche i lembi estremi della tonalità. Una tonalità fissata nell’incipit e poi tradita da un cromatismo che oscura, volti e percorsi, c’è un innominabile in quel cromatismo che slabbra le congiunture e termina in una nota che non ha nome .
"Disarmed". Senza armi ma con un solo pianoforte che passeggia su vuoti elettrizzanti, archi voltaici tra il tutto del nuovo e le cose come sono sempre state, ripetizioni di attimi di stasi, quelle vissute da chi non sa come dirlo che c’è qualcosa che non va. Al 2,30’ il brano ha un’impennata di ritmo e di senso, si fa avanti una tromba, prima è timida poi comincia a modellare poche note che si ripetono, un nostos di ricordi ti sbatte addosso con tutto il coraggio che chai cerchi qualcuno cui dire quello che non hai mai detto.
90/100
Oreste Magnani: Chitarra, voce, tastiere
Paolo Faetani: Chitarra
Tommaso Gavioli: Basso
Matteo Lazzarini: Batteria, percussioni
Anno: 2011
Label: Autoprodotto
Genere: Indie/Pop/Rock
Tracklist:
01. The most important thing
02. Play the game
03. Back in wight
04. Damn me
05. Human falls
06. Somebody left
07. Dark in my soul
08. Cry no more
09. Happiness
10. Untitled
11. Disarmed