L'autorevole Theodoros Terzopoulos ci regala una versione fedele, tuttavia drammaticamente e terrenamente amplificata di “Aspettando Godot”, accentuata di simbolismo, conseguenza d'un venticinquennio di accurato e dovizioso studio da parte del regista, scenografo e costumista greco che s'avvale di un buio e immane background visivo, puntando sull' interpretazione dolorosamente straziante degli ottimi attori. L'opera che Samuel Barclay Beckett, uno dei massimi esponenti della corrente filosofica e teatrale, definita da Martin Esslin Teatro dell'assurdo, scrisse nel 1952, è davvero una fra le più rappresentative del filone appartenente alle drammaturgie che esaltano l'insensatezza dell'esistenza, caratterizzate dall'abbandono di un costrutto drammaturgico razionale e dal rifiuto del linguaggio logico-consequenziale. L'albero citato nel dramma, diviene in scena un bonsai poco vitale, mentre lo spazio fisico e psicologico che contiene la narrazione è racchiuso in un imponente pannello quadrato pronto a trasformarsi in tridimensionale mega cubo, dimezzandosi orizzontalmente per includere gli inerti protagonisti, Vladimiro ed Estragone, simbiotici come agonizzanti feti siamesi monozigoti per le rispettive teste, assolutamente sfuggenti nello sguardo, morbosamente attanagliati da insostenibili non dialoghi. Verticalmente il solido si apre e, preannunciato dallo squarcio della porta telata per mezzo di un fendente, appare sulla parte superiore della struttura, sbrindellato e insanguinato, il detentore terriero Pozzo, mentre il servo Lucky, sdrucito, ferito e agonizzante, incapsulato in una metaforica trincea buia e senza scampo, personificazione di ineluttabile follia figlia dell'orrore, raggiunge il proscenio trascinandosi come colpito mortalmente e annientato nella psiche, fino al bonsai. Un inquietante messaggero arriva a mo’ di spirito inatteso, infilando il viso nell' eburnea croce greca che cala dall’alto, a scandire sbavando a profusione una sorta di servile ripetitiva litania snervante, utile a trasfigurarne l'atroce sofferenza e l'ineluttabile obbedienza abnegata Non giungerà Godot, né oggi, né domani. C'è da aver pazienza in questa estenuante attesa senza fine che ha il sapore amaro di una chimera impalpabile oppure e di contro, occorrerebbe abbandonare definitivamente l'indolenza della ripetitiva quotidianità e allontanarsi dal quel luogo inospitale che è l'inerzia, da quella compagnia rassicurante e insopportabilmente monocorde che è Do-do, che è Go-go, e ancora, occorrerebbe addirittura togliersi la vita con una corda sufficientemente lunga, perché si accorcino le distanze con il fatale incontro e tutto finalmente si compia. La presente recensione si riferisce allo spettacolo del 5 marzo 2024 |
Aspettando Godot
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