Di fronte al nuovo disco dei Baroness e alle reazioni entusiastiche della critica non si può non tirare in mezzo i Mastodon e fare un confronto. La metafora potrebbe essere questa: i Mastodon sono il cugino di provincia, grezzo, uno che ti tira pacche sulle spalle e ti lascia il segno rosso. Il cugino campagnolo ci tiene però a farsi vedere simpatico e nel tempo si è aperto sempre di più alla gente di città, smussando leggermente la sua scorza ruvida. I Baroness sono il cugino di città: decisamente meno talentuoso dell’altro, ma più furbo e capace di prendere solo ciò che di buono l’altro ha da dare, facendolo proprio e riproponendolo in una veste più semplice, amichevole, pensata per gente che non può dedicargli troppo tempo e vuole capire subito cos’ha da dire. Ecco, le sorti parallele, intrecciate ed alterne delle due band stanno andando circa così. Dopo anni in cui i Mastodon hanno dominato le scene, relegando i Baroness ad un ruolo di decenti seguaci, nell’ultimo lustro la situazione pare essersi ribaltata. O almeno, per certa critica come Pitchfork o alcune testate italiane poco esperte di metallo. I Mastodon si sono quasi fottuti da soli nel 2011 con The Hunter, criticatissimo disco-pausa che arrivava dopo quattro colossi; i Baroness hanno invece iniziato a superare i loro maestri con Yellow & Green del 2012. Sicuramente più fresco del cugino incazzoso di Atlanta, fu incensato da diverse testate: Pitchfork gli diede 8.5/10 e alcuni critici dissero che «I Baroness sono oggi quello che i Mastodon non sono riusciti a diventare: una band che oltrepassa i confini e le definizioni» (SentireAscoltare). Alla prima occasione insomma il cugino-orso era stato messo in posizione di inferiorità. Ci poteva stare perché in quel caso il lavoro di Baizley e compari era più convincente, per quanto ben distante dai livelli supposti da Pitchfork. Il problema emerge come un bubbone di fronte alle ultime due produzioni: Once More ‘Round the Sun e il fresco di stampa Purple. Anche in questo caso la linea di tendenza è quella suddetta. Quello dei Mastodon è stato accolto discretamente bene, ma c’è sempre un ma. Gli abituali censori della band di Sanders e Dailor non hanno perso l’occasione per bastonare duro: Pitchfork 6.3, SentireAscoltare addirittura 5.9. Valutazioni davvero assurde per un disco che univa furia metal e melodie curatissime, certo con alcuni episodi un po’ di plastica, ma anche tante idee apprezzabili. Il cerchio si chiude con Purple: disco di evidente ripiegamento nelle ambizioni, dopo un incidente che ha portato all’abbandono di alcuni membri dei Baroness. Fin dai primi due singoli ha mostrato la sua statura modesta: Chlorine & Wine è un crescendo piacevole, ma davvero semplice e lineare. Shock Me è un rock-metal d’impatto, ma fin troppo ammiccante e con un ritornello molto radio-friendly. Come High Road e Motherload dei Mastodon, ma qui la cosa si estende a tutto il disco. Ritornelli tonanti e facili da ricordare, qualche scorribanda sludge edulcorata, strofe melodiche ma non troppo dolciastre (come quelle più coraggiose del precedente album). Minutaggi esigui, pochi brani, nessuna ballata vera e propria, solo un pezzo malinconico in chiusura (If I Have to Wake Up): insomma, una formula studiata al millesimo per piacere a Pitchfork. Che infatti è arrivato puntuale con un ridicolo 8.5/10. I motivi di questo trattamento di favore, messa da parte la teoria del cugino fico e quello grezzo, potrebbero essere due. Da una parte le linee vocali e i timbri: John Baizley ha una voce rock, graffiante ma non troppo, che può piacere un po’ a tutti. Mentre Hinds, Sanders e Dailor si passano il microfono manco fossero i Take That. Cioè, hanno timbri troppo metal oppure troppo dolci (Dailor): scontentano sempre qualcuno. Dall’altra parte c’è la complessità: i Baroness hanno meno talento e meno fantasia, suonano perciò canzoni più semplici per il contesto metal. Questo fa piacere alla critica meno addentro al genere, che premia l’immediatezza a discapito ad esempio della stratificazione di Once More ‘Round the Sun. Per questo ascoltare Purple è una pacchia: è metal ma non troppo, è rude ma non troppo, ma nemmeno troppo smaccatamente ruffiano. Ecco, la band di Savannah ha individuato la sua via nella medietà: sono anche bravi nel portarla avanti, il disco scorre che è una meraviglia. Ma in questo modo si sta attuando una svendita al ribasso, laddove i cugini di Atlanta starebbero invece cercando di aprirsi a un pubblico più vasto senza rinunciare a nessuna (o quasi) delle loro diavolerie metalliche. Per farsi un’idea precisa basta sentirsi la chiusura di questo disco, affidata allo struggimento inoffensivo di If I Have to Wake Up (Would You Stop the Rain?), e confrontarla con Diamond in the Witch House: un piccolo incubo alla Neurosis con la voce demoniaca di Scott Kelly. Questo basta a evidenziare la divaricazione tra i due percorsi musicali intrapresi. |
Pete Adams: voce, chitarra elettrica, chitarra acustica Anno: 2015 01. Morningstar |