Una vita che sto qui
Milano, Teatro Parenti, 26 apr-7 mag 2022

Una standing ovation meritata per Ivana Monti nel bel monologo di Roberta Skerl. Eh sì, perché “per fare certe cose ci vuole orecchio”. La musica di Jannacci ci accoglie in sala, la voce inconfondibile, ironica e tragica, buffa e piena di umana gentilezza e comprensione come il popolo milanese del dopoguerra.

Il luogo: un appartamento di quarantotto metri quadri nelle case popolari dell’ALER, costruite tra il 1938 e il 1944; allora il Lorenteggio era ancora un piccolo borgo, con tanto verde e tante cascine – “…che profumo d’erba! E che spusso de letame...” -, appena inglobato in una Milano che già conosceva l’espansione edilizia della “città che sale”. Prima l’Adriana (siamo a Milano, l’articolo ci vuole) viveva vicino all’Oratorio. Io, milanese d’adozione, non sapevo cosa fosse; l’ho cercato, è l’Oratorio di San Protaso al Lorenteggio, minuscola chiesina sopravvissuta a mille anni di storia. Se lo cercate oggi, lo troverete resistere come un baluardo dell’identità di quartiere nello spartitraffico della trafficatissima via Lorenteggio.
L’Adriana ci dice che quando entrarono nel minuscolo appartamento, nel 1958, la mamma, il papà dalle mani grandi e dagli occhi azzurri “pezzetti di cielo” e lei bella fanciulla diciassettenne, le sembrava una reggia – il cesso in casa! – e lei si sentiva la principessa Sissi.
Adesso l’appartamento è fatiscente: la cucina a gas smaltata di bianco, i mobili in formica, tanto in voga negli anni sessanta, il vecchio e scrostato frigo della Indesit, smaltato e con il maniglione cromato, oggi icona di stile, e un improbabile TV a tubo catodico color aragosta, sopravvissuto non si sa come alle evoluzioni tecnologiche della TV digitale. Scatoloni e valigie ovunque. Le buste della Standa accanto a quelle dell’Oviesse. Non una mano di bianco in più di sessant’anni, “quella magari ce la potevo dare”.
L’azione: stanno arrivando quelli dell’Aler per il trasloco, devono spostare tutti gli inquilini per fare una totale ristrutturazione degli immobili. Poi la gente potrà riprendere possesso dei propri appartamenti, completamente rinnovati. Almeno, questo è il punto di vista di quelli dell’azienda pubblica: l’Adriana ha un altro punto di vista e lo esprime con vigore nel suo milanese popolare e sanguigno - “arcistar lavora e mi me sbàte via!” – e poi – “dove mi sbàtete che non g’ho nissùn…mi mandate a Lainate, per me l’America è la stessa cosa!”.
La resistenza però non ha avuto alcun effetto, se non di farla restare pressocché sola insieme a pochi rumorosi immigrati africani, tra ladri, spacciatori e disturbanti visite porta a porta di sedicenti venditori. Anche i meridionali del piano di sotto sono andati via, caciaroni, ma brava gente, generosa, hanno costruito Milano. Mica come quegli africani. Il politically correct non è entrato in casa della vecchia milanese purosangue, non le frega nulla di dire le cose come stanno, - “fratelli tutti? Fratelli un c…! Io sono figlia unica.” - e lei lo può fare, perché è una vita che sta qui.  
Fare le valige, mettere negli scatoloni le povere cose, è per forza di cose un amarcord, ma un amarcord vitale e combattivo, come vitale e combattiva è stata tutta la sua vita.
E questa donna non ci appare certo fragile; si muove con veemenza, talvolta con passi di danza insieme alla sua vestina bella, talvolta con gesti famelici sorbendo il caffellatte; la immaginiamo mentre evita con un subitaneo colpo di reni la rottura di qualche osso, conseguenza della “scarlingada” su marciapiedi sconnessi. È grande l’Adriana, ha larghi fianchi e larghi seni nella vecchia vestaglia a fiorellini e anche le sue mani si muovono vivaci, talvolta ad aiutare un ricordo, un nome che non viene fuori ma poi arriva, perché non “sei arrivata in cima all’Alzheimer, una stazione sciistica che se ci arrivi in cima non torni più giù”.
Ma lei si ricorda ancora tutto, perfino i bombardamenti di Milano da parte degli inglesi e degli americani anche se allora era davvero piccola. Si ricorda la strage dei bambini a Gorla il giorno del suo terzo compleanno. Era in piazza della Scala quando hanno reinaugurato il teatro distrutto, con un concerto di Toscanini e della Tebaldi, dentro i sciuri, fuori tutto il popolo di Milano. E ti sembra di essere con lei quando tutta la piazza intona il Và Pensiero.
Tutta la vita dal dopoguerra ad oggi scorre nei larghi gesti, nella voce un poco roca e nella mimica vivacissima di Ivana Monti/Adriana, talvolta ridi ma più spesso ti domandi come abbia fatto lei ad amarla così tanto quella vita così dura.
Tanto da non voler lasciare quel posto dove sempre ha vissuto e dove ha visto “morire tutti i bambini del cortile”.  

Potremmo ragionare sui modi e i tempi della rigenerazione urbana, sull’emigrazione e sui nuovi nomadi. Potremmo speculare sullo sradicamento, l'abbandono e l'oblio contrapposti al rinnovamento, al senso della memoria, dell’eredità e della storia.
Potremmo domandarci quale luogo chiamare casa e perché. Potremmo ricercare quel senso di comunità dei vecchi quartieri come elemento unificante, come generatore di ponti tra passato e futuro.

Ma sul piano delle emozioni non possiamo fare altro che lasciarci trascinare da questo monologo dirompente e da questa straordinaria attrice che ci ha restituita intatta l’irresistibile vitalità di una vecchia milanese di periferia



Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 26 aprile 2022.


Una vita che sto qui
dal 26/04/2022 al 7/05/2022

di Roberta Skerl
con Ivana Monti

regia Giampiero Rappa
scene Laura Benzi
Luci Marco Laudando
assistente alla regia Maria Federica Bianchi e Beatrice Cazzaro

produzione Teatro Franco Parenti







TEATRO PARENTI
Via Pier Lombardo, 14 MILANO
tel: 02 5999520
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ORARIO SPETTACOLI
Martedì 26/4 ore 20.30
Mercoledì 27/4 ore 19.15
Giovedì 28/4 ore 20.30
Venerdì 29/4 ore 19.15
Sabato 30/4 ore 19.15
Domenica 1/5 ore 15.45
Martedì 3/5 ore 19.15
Mercoledì 4/5 ore 19.15
Giovedì 5/5 ore 20.30
venerdì 6/5 ore 19.15
sabato 7/5 ore 19.15


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