Ten dei Pearl Jam è certamente uno degli album migliori degli anni novanta. Sebbene all’inizio non fosse ancora chiaro quanto il movimento grunge avrebbe influenzato la cultura e la scena musicale di quegli anni, comunque è indubbio che finì per farlo in modo inesorabile, segnando una generazione di adolescenti insicuri e condannati all’apatia esistenziale, ingannati da una cultura del consumismo che avrebbe loro negato desideri ed aspirazioni. Come dimenticare le immagini che si accompagnavano alle recensioni dei loro dischi: le camicie di flanella a quadri, i jeans strappati, i capelli lunghi. In modo ancora inconsapevole, l’urlo di Seattle attraversava gli oceani e sbarcava in Europa definendo un momento storico irripetibile e consegnandoci alcuni dei migliori interpreti di quei tempi. L’album d’esordio dei Pearl Jam rappresenta un po’ tutto questo. Contrapposto ai monotoni schemi musicali cui si era abituati fino ad allora, rappresentava, in maniera dirompente sulla scena mondiale, un nuovo modo di fare musica. I Pearl Jam col tempo avrebbero trovato una loro nicchia e sarebbero diventati una band di culto per veri appassionati. Intimisti al punto giusto, comunicavano fin dagli esordi la giusta miscela di rabbia esplosiva mista ad una negazione di un conformismo viscerale che assopiva le coscienze. Ben presto, la loro musica avrebbe finito per trasformarsi in filosofia ed appassionare milioni di fans in tutto il mondo. L'album è un misto di chitarre elettriche distorte che fanno da cornice ad una voce essenziale ed unica, potremmo dire: la voce del suo leader, Eddie Vedder, è capace di passare da registri morbidi a spasmi isterici ed incontrollati. Ci sono canzoni come "Alive", o "Release", maggiormente apprezzate ed ancora proposte dal vivo, che raccontano le esperienze dell'adolescenza del cantante e del suo rapporto con il padre ("…what you thought was your daddy…" o "…your real daddy was dying…"). E' proprio la prima delle due che inizia con un semplice fraseggio di chitarra per poi gettarsi, nel finale, in un solo che tanto fa ricordare la chiusura di "Free Bird" degli Skynyrd. Qui Mike McCready dimostra un uso sapiente delle pentatoniche che sfrutta veramente al massimo. La seconda delle due è in realtà una preghiera cantata e dedicata da Vedder a suo padre ormai defunto. L’arpeggio iniziale, che poi fa da base a tutto il brano, finisce per concedere alla canzone una dimensione surreale, quasi mistica, in un crescendo di cori ed echi. "Jeremy" è il pezzo che segna una svolta e che rivela alla band maggiore consapevolezza. Prevalentemente asservito al giro di basso di Jeff Ament, è ispirato ad un reale fatto di cronaca: il suicidio di un giovane in un scuola americana di fronte alla sua classe ("Jeremy spoke in class today"). L’uso degli armonici naturali, il testo, le tonalità vocali, danno una sonorità a tratti cupa e tormentata in grado di rispecchiare il dramma esistenziale del protagonista del brano. Il video, uno dei primi (e dei pochi) girati dal gruppo fu anche al centro di controversie con MTV per alcune immagini, poi cancellate nella versione finale. Tuttavia, fu con questo video che i Pearl Jam si imposero sulla scena internazionale e anche commerciale che però li indusse ad astenersi, fino al 1998, dal produrne altri. Che dire, poi, di altri pezzi come "Why Go" e "Oceans" oppure della tenebrosa e affascinante "Black"? Ten è l’album che indicò la strada de seguire da quel momento in poi: sicuramente atipico per quegli anni, è un album che merita un posto speciale tra la discografia degli anni '90 e che gli appassionati del genere non possono evitare, ogni tanto, di tornare ad ascoltare. |
Eddie Vedder: Voce guests: Anno: 1991 Tracklist: |