Ha aperto il primo, in cui milita una quindicina di giovanissimi danzatori, il cui acronimo (che si legge "un metro cubo"), allude al "limite simbolico in cui vivere, convivere e dal quale, nel caso, evadere attraverso l’esperienza personale di ognuno". L'esibizione ha colpito la nostra attenzione: l'intero organico è stato suddiviso in sottogruppi che, alternandosi, hanno danzato sopra, di fianco, finanche ai piedi di tre grossi cubi, creando suggestioni visive di grande impatto, palesando osmosi e grande coesione. La direzione di Alessia Gatta (peraltro, anche direttrice artistica dell'intero Futuro Festival), si è dimostrata efficace, pur nella sua sobrietà espressiva, sia per ciò che concerne gli abiti di scena (jeans e magliette bianche per ogni danzatrice/danzatore), sia con riguardo alla durata, assai contenuta, cosa che ha permesso di realizzare una esecuzione assai compatta, quasi immediata, perfettamente in grado di sublimare movimento del corpo e sinuosità degli arti. A seguire, la performance di Woman Made, "progetto che dà voce alle donne coreografe, registe e curatrici tra creazione e programmazione congiungendo lo sguardo femminile sulla danza contemporanea dell’area mediterranea". Tre gli atti, non necessariamente nell'ordine di seguito indicato: "The Encounter: Italy" "attinge al modo radicale in cui abbiamo incontrato la nozione di tempo in isolamento: la sua velocità sfrenata e la sua lentezza brutale"; "She Owns – a narration #1" è una "breve manifestazione artistica (.) di una riflessione condivisa e di un processo di riesperienza incarnata sul tema del ciclo mestruale"; "Nautilus", infine, "tesse uno spazio di intime trasformazioni giocando su temi legati alla fertilità, la crescita evolutiva, la forza femminile e l’emancipazione". Va innanzitutto precisato che, a modesto parare di chi scrive, è apparso subito evidente lo scollamento piuttosto macroscopico tra quanto esplicitato nella brochure e quanto trasposto sul palco. Cioè a dire che alcuna delle tre esecuzioni artistiche ha effettivamente incarnato, neanche lontanamente, quanto trascritto in precedenza nero su bianco. Anzi, a fine serata, ancora ci si chiedeva quale titolo fosse da attribuire all'una o all'altra esibizione. In termini di valore assoluto, la prima delle tre - e ancora non sappiamo indicare quale rubricazione attribuirle (a dimostrazione di quanto detto poco sopra) - si è dimostrata assai efficace, nella sua inedita e suggestiva commistione tra ramaglia e corpi umani. L'intreccio che ne è scaturito ha dato vita ad una stratificazione visiva che ha avuto il potere di richiamare ancestrali figure estetiche e suggerire potenziali contatti tra la creatura umana e la natura, pur nella sua fase finale, quella afferente alla caducità dei rami. Gli altri due atti, invece, hanno suscitato perplessità: le danzatrici hanno proposto un range che toccava due estremità, passando repentinamente da un minimalismo espressivo ad una esasperazione del movimento e viceversa. Saltando di colpo tutto ciò che si trovava nel mezzo, cioè, si è partiti dalla staticità dei corpi fermi o rallentati, giungendo all'assolutismo del movimento, tra corse, scontri corporali, scatti repentini, per poi rifare il percorso a ritroso. In alcuni frangenti, è parso a chi scrive di assistere ad una summa di esercizi ginnici, piuttosto che ad una danza. Si è talvolta dubitato, infine, che alcuni movimenti non sincronizzati fossero realmente voluti. In sintesi, l'arte espressiva di Woman Made, quantomeno nelle due opere finali, è parsa complessa, criptica, a tratti macchinosa, adatta ad un pubblico che, suo malgrado, è obbligato a sedersi sugli spalti previo adeguato approfondimento dell'inusuale arte scenica che andrà ad assistere. |
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