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Al teatro Leonardo, Corrado D’Elia porta in scena Macbeth, Inferno. Nell’oscurità più totale si apre uno spettacolo surreale, dove l’atmosfera è intrisa di terrore e paura. Fin dal primo istante il pubblico resta col fiato sospeso, catturato in un vortice sensoriale che non lo abbandonerà, neppure dopo la fine. Un’esperienza che continua a pulsare dentro, come un incubo da cui non ci si risveglia.
Figure incappucciate si muovono a rallentatore, intorno ad un fuoco simbolico; alcune tremano, altre sembrano in preda a convulsione, corpi nudi divorati dal senso di colpa. Una voce, lontana e implacabile, pronuncia la condanna: “Salve, non dormirai più”. È in quell’istante che si capisce che Macbeth Inferno non è la riscrittura di un classico, ma un rito. Non c’è trama, non c’è logica narrativa: c’è solo l’incubo. D’Elia svuota la tragedia di Shakespeare e la trasforma in materia rituale: il testo si fa liturgia, le parole invocazioni, i gesti preghiere rovesciate. Macbeth non è più protagonista, ma iniziato; lady Macbeth non è più complice, ma guida, sacerdotessa, madre arcaica. Tutto si muove in un tempo irreale, simbolico, ancestrale. Il risultato è un’esperienza ipnotica, un teatro che non rappresenta ma possiede. La prima parte si apre come sogno premonitore: Macbeth è già dentro il suo delirio, “intrappolato in un sogno da cui non riesce a svegliarsi”, dice il regista nelle note. La scena si costruisce come una visione: figure oscure, luci improvvise, suoni profondi che invadono lo spazio. La voce che sussurra dal buio diventa il filo sonoro di un incubo che si ripete. In un'atmosfera quasi cinematografica, da horror psicologico, il reato si prepara: Macbeth esita, lady Macbeth lo irretisce, lo inizia. “Nell’occasione più propizia manca a lui il coraggio che prima mostrava”, lo rimprovera, e con quel gesto lo spinge verso la perdizione. Il linguaggio di Delia è sintetico. La luce taglia il palco come una lama, il suono diventa materia scenica, il corpo è parola. La partitura musicale è costruita come un battito cardiaco che non si ferma mai: un tamburo di morte che accompagna la scena dell’assassinio del re. Macbeth, col fiato spezzato, invoca la terra perché non senta “l’atto orribile che sto compiendo”. Poi, la campana, suono rituale, annuncia la discesa. Da quel momento tutto è eco, tutto è pentimento. “Mi pento, mi pento, mi pento, mi pento”, ripete, come un mantra disperato. Eppure, in mezzo a questa liturgia infernale, un lampo spiazza e rivela. In sottofondo risuona Sweet Dreams degli Eurythmics, mentre in scena un corpo nudo si contorce nel buio. Uno dei brani pop più iconici degli anni 80 diventa l’inno disturbante di una generazione che ancora sogna il potere come realizzazione, ignorando che dietro ogni sogno c’è sempre un sacrificio. È un momento di grande intelligenza teatrale: ironico, crudele, poetico. Il banchetto, nella seconda parte, è il trionfo della follia. Macbeth urla: “l’inferno è qui”, e davvero l’inferno si spalanca. Macbeth è in preda agli isterismi, gli invitati si ritraggono spaventati, lady Macbeth tenta di salvare le apparenze ma il male non si può più contenere. Tutto è posseduto: il corpo, la voce, il gesto. Le figure incappucciate tornano, i demoni sussurrano. Macbeth urla “io non ho paura di te”, ma il pubblico sa che è l’esatto contrario. In questa spirale di visioni, d’Elia porta il suo protagonista, e con lui tutto il pubblico, dentro un labirinto senza uscita. La scena finale, in cui Macbeth pronuncia “ma queste sono solo parole dette da un attore qualunque”, rompe l’incantesimo ma non lo dissolve. È un ritorno alla realtà che non libera, un risveglio che lascia la sensazione che il sogno continui dentro di noi. Dopo un’ora di trance teatrale il pubblico resta immobile quasi stordito. Macbeth, Inferno è un’esperienza che si vive con il corpo prima che con la mente. È teatro alchemico, visionario in cui tutto si fonde. Un “teatro della trance” dove il gesto si ripete come una danza rituale e la luce diventa un sigillo magico. Corrado d’Elia dimostra di saper maneggiare con eleganza e disinvoltura il linguaggio della scena, soprattutto nei suoi aspetti più visivi e sensoriali. Qui non cerca la compressione, ma la possessione. Non racconta Macbeth, ma lo evoca. In questo spettacolo non c’è morale, non c’è redenzione. C’è. Solo un destino che si compie, un rito che brucia. È un Macbeth che non consola, ma sconvolge, che ribalta la nostra idea di teatro ci riporta al suo significato più originario: per i greci osservare non era un atto passivo ma un rito collettivo, un atto comunitario di visione, di partecipazione. Lo spettatore non è semplicemente chi assista una storia, ma chi partecipa a una forma di rivelazione. Alla fine, resta il battito lontano di un tamburo e la sensazione che l’incubo, da qualche parte non sia ancora finito.
La presente recensione si riferisce allo spettacolo del 28 ottobre 2025
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MACBETH, INFERNO da William Shakespeare
progetto, adattamento e regia Corrado d'Elia
con Corrado d’Elia, Chiara Salvucci, Marco Brambilla
e con Sabrina Caliri, Irene Consonni, Tommaso di Bernardo, Edoardo Montrasio, Denise Ponzo, Diego Saponara
assistente alla regia Marco Rodio scene Fabrizio Palla grafiche Chiara Salvucci tecnico luci Francesca Brancaccio tecnico audio Davide Andreozzi
produzione Compagnia Corrado d’Elia
Un viaggio infernale, terrificante e perfetto. Uno spettacolo che toglie il fiato e che ci catapulta senza ritorno dentro la parte più oscura dei nostri desideri. Una discesa nella parte più oscura e perturbante del capolavoro shakespeariano. La trama viene svuotata. I legami causali si spezzano. Le psicologie si dissolvono come fumo. Resta la carne. Resta il sangue. Resta il sortilegio. Macbeth non è più protagonista: è un iniziato, una vittima sacrificale, un corpo smarrito che attraversa uno spazio che non è più reale, ma simbolico, rituale, ancestrale. È entrato in un tempo altro, in un luogo dove la colpa non nasce dalla scelta, ma dal destino. È una pedina in un gioco già scritto. In questo mondo irreale ma potentissimo, domina la figura di Lady Macbeth. Non è solo complice, ma guida. È sacerdotessa, strega, madre arcaica. È la vera burattinaia, la regina delle ombre. Lei evoca, possiede, consacra. Macbeth è solo il suo strumento, il suo figlio/amante sacrificale, un corpo offerto al rito. Lo spettatore non guarda: attraversa. È immerso in un’esperienza onirica, sacrale e perturbante. Non assiste a un dramma, ma partecipa a un sabba. Sente il battito del suo cuore, vede lo spettro della sua colpa.
(fonte comunicato stampa)

MTM Manifatture Teatrali Milanesi Teatro Leonardo
via Ampere, 1 20121 - Milano
Informazioni e prenotazioni Tel: 02 86454545
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ORARIO SPETTACOLI: dal martedì al sabato ore 20.30; domenica, ore 16,.30
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