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Su questo impianto visivo, il sound – curato con sapienza pervasiva – emerge come eco psichica, risacca emotiva che avvolge la voce e il corpo di Cinzia Spanò, autrice e interprete. È un tappeto acustico che pulsa come un respiro alterato, insinuandosi fra le parole, amplificando silenzi, tracciando traiettorie invisibili nella coscienza dello spettatore. Un suono che non accompagna ma interroga, che non riempie ma erode, trasformando la narrazione in un tunnel percettivo. La Spanò, con rigore drammaturgico e intensità sobria, si fa corpo rievocativo di una delle vicende più disturbanti e paradigmatiche della cronaca recente: il caso delle baby squillo dei Parioli. Attraverso una scrittura lucida, mai compiacente, ripercorre gli snodi processuali che coinvolsero due adolescenti, inghiottite da una rete di prostituzione minorile in una delle enclave più opulente della capitale. Il dramma giudiziario si trasfigura in specchio dell’anomia sociale, dove desiderio, potere e denaro si fanno strumenti di una manipolazione intergenerazionale silenziosa e normalizzata. Nel suo monologo, la protagonista si spinge oltre la ricostruzione dei fatti, scavandone i retroscena psicologici, le ambiguità morali, le complicità inconfessate. La sua voce assume di volta in volta la postura dell’imputata, della madre, del giudice, del testimone – dando forma a un affresco umano e giuridico in cui le introspezioni si confondono, si rifrangono, si commistionano. Il confine tra vittima e carnefice si sfalda, e persino la figura del giudice, chiamata a pronunciarsi, è investita da un turbamento profondo: quello di chi deve mantenere la barra della razionalità in un oceano di ambiguità emotiva. In questo contesto, il pensiero di Friedrich Nietzsche tratto da Al di là del bene e del male, vibra come struttura portante. «Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». Una citazione che diventa chiave ermeneutica dell’intera pièce, perché in questa materia scivolosa non c’è giustizia che non sia anche riflessione su sé stessi, non c’è osservatore che non venga contaminato dall’oggetto che osserva. Un’opera stratificata, potente nella sua sobrietà, che non cerca risposte facili ma espone il pubblico a quesiti scomodi, a zone d’ombra, a riflessioni morali senza catarsi. Teatro civile, sì, ma soprattutto teatro dell’umano. Necessario, urgente, profondamente riuscito. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 31 ottobre 2025 |
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