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Settantotto anni dopo, il Piccolo Day rinnova questa vocazione civica con una rassegna di eventi aperti alla città. Tra questi, si è distinto per profondità e tensione critica “Il Lear che ci riguarda”, incontro curato da Davide Gasparro, corroborato dagli interventi di Gabriele Lavia, Federica Di Martino e Maurizio Porro. Il titolo, intenzionalmente evocativo è al contempo un'auspicabile esortazione a leggere il capolavoro shakespeariano non come materia d’archivio ma come dramma vivo, attuale e politicamente necessario. Come corpo scenico in grado di parlare all’oggi. Per Lavia, Lear è il monarca della caduta e della nudità, emblema di un potere che implode nella verità dell’umano. Di Martino, dal canto, suo pone l’accento sulla tensione tra affetto e autorità, tra linguaggio e silenzio che attraversa il testo e lo rende ancora bruciante. Il cuore dell’incontro, ha inevitabilmente pulsato nel nome di Giorgio Strehler il quale è stato totalmente attraversato dal fascino immarcescibile dell'opera che esonda pervicacemente nell’eco nei suoi allestimenti, propriamente nel modo in cui il regista concepiva la pièce come atto pubblico, la scena come specchio civile, la parola come responsabilità, condizionando la sua visione artistica come un sottotesto ideale: la caduta del potere, la cecità della ragione, il disfacimento dell’autorità come atto umano e politico. In Lear, il maestro intercetta la fragilità dell’uomo moderno, la dissoluzione di ogni certezza dinanzi alla verità della morte e del silenzio. In questo senso, il protagonista del dramma è stato per Strehler un dissidio interiore costantemente evocato nella visione sul palcoscenico. Il suo teatro, denso di etica e poesia, ha sempre avuto in questo personaggio un’ombra regale, un monito eterno. Un re nudo non solo nella tempesta, ma nel cuore di ogni civiltà che si interroga sulla propria caduta. Il rapporto tra Giorgio Strehler e Gabriele Lavia rappresenta senza dubbio una delle connessioni più significative nel panorama dell'arte nel Novecento. Fondatore del Piccolo, il direttore artistico fu mentore affascinante che influenzò profondamente la visione artistica del giovane interprete. Nel 1972, il mattatore interpretò l'agognato ruolo di Edgar nell'allestimento diretto dal maestro al Piccolo. Questa peculiare esperienza, al fianco di una giovanissima Ottavia Piccolo che interpretò il duplice ruolo di Cordelia e del Matto, e di Tino Carraro, baritonale padre reggente, misurato e riflessivo anche nei momenti di furia, fu dirimente per la sua formazione, tanto da poterla annoverare come l'esperienza più importante del suo percorso professionale. Attraverso questa collaborazione egli non solo affinò le sue capacità istrioniche, ma iniziò anche a sviluppare una sensibilità registica, riconosciuta dallo stesso Strehler. Quest'ultimo, infatti, notando l'approccio creativo di Lavia durante le prove, ebbe a dirgli: "Mi duole molto ma vedo sul tuo capo la nube nera della regia!" Il regista triestino era noto per il suo approccio poetico e appassionato alla scena, trattando gli attori con una combinazione di rigore e affetto. Lavia ricorda come il direttore fosse estremamente concreto nel lavoro, ma al contempo dotato di una sensibilità straordinaria. Questa dualità orientò profondamente Lavia, che apprese l'importanza della disciplina e della dedizione al mestiere teatrale. La relazione tra i due si estese oltre il palcoscenico. Strehler continuò a seguire la carriera dell'allievo, inviandogli telegrammi e lettere in occasione delle sue prime rappresentazioni, dimostrando un affetto e un interesse costanti per il suo percorso artistico. L'interazione e il duraturo sodalizio hanno rappresentato un passaggio di testimone tra due generazioni di teatranti, unendo la visione innovativa di uno con la passione e la dedizione dell'altro a vantaggio dell'intera arte melodrammatica. Porro ricorda nel suo intervento il ruolo del Piccolo come “città teatrale” dentro la città reale, un luogo di formazione culturale e resistenza poetica. In questa prospettiva, il forum si configura più che in qualità di convegno di settore, come atto di continuità culturale. Ridando voce a una delle domande fondanti del politeama circa il significato della rappresentazione del potere e intorno a quale spazio rimanga alla coscienza critica, nell'era del disincanto. In un’epoca di proliferazione di offerte sceniche e consumo estetico accelerato, questo tipo di appuntamento si impone come spazio necessario. Non nostalgia, ma memoria operante. Non celebrazione, ma rinnovata militanza artistica. Così come avrebbe voluto Strehler. "We'll meet at Philippi", come ad alludere incessantemente ad un irrinunciabile caposaldo (Giulio Cesare di Shakespeare), chiosando non con un addio ma un arrivederci di rango. La presente recensione si riferisce allo spettacolo del 14 maggio 2025 |
Il Lear che ci riguarda:
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