Il titolo di quest'opera, "Il caso Tandoy", e la sua rubricazione "Intrighi, delitti e passioni nell’Agrigento degli anni ‘60", non preannunciano nulla di avvincente: un evento omicidiario realmente accaduto in Italia, durante gli anni '60 ed un palco teatrale sul quale vengono ricostruiti i contesti giudiziario e sociale che scaturirono a seguito di quel reato. Il lettore converrà che si tratta di ingredienti di una ricetta che pare esercitare un ben limitato ascendente. E invece no! Michele Guardì confeziona un'opera del tutto inusuale, in possesso di un substrato oltremodo stratificato. C'è infatti un po' di tutto, nella sua scrittura e regia: dalla denuncia sociale, al giornalismo d'inchiesta, passando per il pettegolezzo di quartiere, la tresca sottesa all'intrigo amoroso, l'umorismo sottile del raffinato osservatore, le considerazioni filosofiche in ordine ad eventi naturali come l'amore e la morte. Partendo dall'inizio, si tratta sostanzialmente di una ricostruzione di un fattaccio di cronaca nera dal quale scaturiranno indagini improbabili, a tratti inique, talvolta straordinariamente inappropriate, di cui faranno le spese parenti e amici della vittima. Ne nasce una rappresentazione che ha in primis la portata della denuncia sociale, così palesemente indirizzata a testimoniare un evidente e macroscopico caso di malagiustizia, che determinerà a cascata conseguenze prevedibili in ordine al dramma della colpa che ricade su un innocente, alla gogna mediatica patita dai malcapitati di turno, alla giudizio popolare tanto frettoloso quanto ingiustificato. In tal senso, ci sono parse esemplari le riflessioni quasi ieratiche sui temi del trapasso e della relazione clandestina, recitati in forma di monologo dalla vittima e da sua moglie, interpretati con vocazione catalizzante, a tratti magnetica, rispettivamente da Roberto Iannone e Caterina Milicchio. Preme anche segnalare l'opera estetica concretizzata da Giuseppe Manfridi, così incredibilmente efficace nella parte del procuratore caratterizzato dalla mentalità ristretta, ad indirizzo prevalentemente bigotto, perennemente proteso verso la direzione del proprio convincimento, mai soggetto la beneficio del dubbio. In prima linea, un Gianluca Guidi con un compito difficilissimo, quello di ammorbidire tensioni, stemperare gli animi, indurre alla riflessione collettiva con sottile ironia, spingere il pubblico verso la direzione del buon senso evitando di ammorbarlo con riflessioni seriose e stancanti (in tal senso, la sua lodevole capacità di proporre interventi tesi a sdrammatizzare, così decisamente efficace nella seconda parte, forse andrebbe accentuata anche nel corso della prima, ove si patisce un minor dinamismo narrativo, quantomeno nella prima mezz'ora). Se ci è permesso un piccolo suggerimento di stampo tecnico, il procuratore non giudica, giacché non è un giudice, mentre si identifica certamente quale magistrato a vocazione inquirente. Se i soggetti blasonati tra il pubblico possono costituire una sorta di sigillo di garanzia, preme segnalare quantomeno la presenza di Bruno Vespa, la cui professione di giornalista si sposa perfettamente con lo spirito e lo scopo sottesi alla rappresentazione. Coordinando in considerazioni di sintesi quanto sopra espresso, "Il caso Tandoy" si segnala quale opera intelligente nella quale vengono coniugati con efficacia indiscussa, eterogenei contesti tematici e recitativi, peraltro compenetrati tra loro in termini inusuali e mai prevedibili. Le musiche di Sergio Cameriere, perfettamente contestualizzate, rappresentano una ulteriore sublimazione in termini di valore aggiunto. Questa recensione si riferisce alla rappresentazione dell'11 ottobre 2022. |
IL CASO TANDOY |