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La Legge di Lidia Poët


La serie tv Netflix La legge di Lidia Poët è balzata all'attenzione delle cronache per le numerose critiche ricevute e per le risentite obiezioni mosse dalla famiglia dell'avvocatessa per la scarsa aderenza del personaggio così come rappresentato rispetto al personaggio storico.


 

Ad esse si sono poi aggiunte altre critiche riguardanti il silenzio sulle origini valdesi della protagonista, sulla italianizzazione della pronuncia del suo cognome (Poèt è diventato Pòet), su alcune eccessive libertà espressive (chiamiamole così) nel suo intercalare, sulla carente contestualizzazione storica delle vicende, e sulla trasformazione di una giovane e brillante avvocatessa in una sorta di supereroina (espertissima di diritto, di pratiche forensi d’avanguardia, di tecniche di indagini sul campo, di analisi necroscopiche, e via discorrendo; insomma una sintesi di Signora in giallo, Sherlock Holmes, Perry Mason, Don Matteo, Ziva David e Abby Sciuto di  NCIS, e suffragetta ante litteram).
E siccome se si può aggiungere il carico da undici, perché non farlo?, ecco l’Ordine degli Avvocati di Trani precisare (con grande garbo e misura, va detto) che Lidia non è stata nemmeno la prima donna avvocato italiana, giacché Giustina Rocca esercitava la professione già nel ‘500. Giusto, è un fatto. Resta da capire cosa sia andato storto nei tre secoli successivi, ma questo è un altro discorso; semmai diventa sfuggevole capire cosa c’entri la serie Netflix.
Che siano critiche condivisibili o eccessive, in ultima analisi sta al singolo spettatore stabilirlo, anche se non è fuori luogo esprimerle: è fuor di dubbio che nessuna gentildonna torinese di fine ‘800 avrebbe mai pronunciato un solo “Cazzo!” in vita sua, a fronte di quelli profferiti ogni due per tre da Matilda De Angelis, nei panni (talvolta succinti assai – diciamo pure assenti) dell’avvocatessa. Della cui vita erotica nulla si sa, peraltro.

Insomma, rilievi (motivati) sulla verosimiglianza della serie. Curiosamente, nessuno ha mai trovato a ridire sul fatto che, rispetto alla popolazione, percentualmente vi sono più omicidi nel paesello di Don Matteo che in un intero anno a New York; così come Tex Willer ha fatto letteralmente migliaia di morti più dei prosaici ventuno esibiti da Billy the Kid, il più spietato killer della storia del West. Ma stai a guardare il capello.
Il che viene a dire che il problema sta da un’altra parte.
Che la famiglia Poët sia risentita per il modo in cui è rappresentata l’illustre antenata è comprensibile, per tutte le ragioni del mondo; in primis perché quando si trattano storie di famiglia, è anche doveroso dire la propria.Meno comprensibile che ci stiano spettatori (e ancor più, critici) che ignorano il fondamentale principio alla base della differenza tra narrativa naturale e narrativa artificiale, come definite da Umberto Eco; insomma della differenza tra racconto di realtà e racconto di fantasia. Si tratta del patto finzionale tra autore e spettatore, quel che Coleridge chiama “sospensione della credulità”: o accetti di credere che un lupo parla e si traveste da nonna, la quale ha poi una nipote così tonta da non vedere la differenza, oppure è meglio che lasci perdere e fai qualcos’altro.
Si dirà: sì, ma qui ci viene raccontata una storia che ha riferimenti e contorni reali precisi, e pretende di narrare le vicende di un individuo storico ben preciso, perciò il racconto è scorretto. Ah davvero? Come spiega sempre Umberto Eco, il racconto di fantasia è parassita del mondo reale: dà per scontato ciò che il lettore o lo spettatore sa per esperienza e cultura (la sua Enciclopedia), e per il resto aggiunge elementi di fantasia, che possono essere più o meno fantastici. I cavalieri esistevano, nessun dubbio; so di cosa si parla e quando è ambientata la vicenda; poi, ogni tanto trovavano da questionare con un drago, ma a nessuno verrebbe in mente di bollare la storia come schifezza irrealistica, giacché i draghi non esistono, ma nessuno è così babbeo da prendere per oro colato l’informazione.

Solo che le cose non son mai così semplici. Supponiamo che un romanzo faccia agire il suo protagonista sotto la Tour Eiffel a Berlino. D’emblée il lettore medio darebbe del patente ignorante all’autore, e sarebbe portato a buttare tutto nell’immondizia. Ma se si trattasse di un racconto distopico? La letteratura cyberpunk, ad esempio, lo fa di regola. Ma quand’anche a Roma facessi sfociare Via Condotti in Via del Corso, potrebbe essere per una mia necessità narrativa, oppure per una mia ignoranza topografica, lo scopo del racconto non sarebbe comunque quello che ha una guida turistica della capitale.
Per inciso, è quel che fanno di regola tutti i film, e nessuno solleva mai la questione. Infatti nessuno obbietta alcunché se una storia ambientata a Londra si svolge in un quartiere e in una abitazione di fatto inesistenti.
Per i personaggi storici vale la stessa regola, infatti incontrano e interagiscono con personaggi letterari: qualcuno giudica forse Forrest Gump una scempiaggine perché incontra Elvis Presley, Lyndon Johnson, Nixon e tutti gli altri?
Perché accade questo? Per il semplice motivo che lo status ontologico di un personaggio letterario, o cinematografico, è diverso da quello di un personaggio storico o contemporaneo che sia. Nel momento in cui un personaggio storico reale si sposta dal mondo reale della narrativa naturale al mondo fittizio della narrativa artificiale, smette di essere persona per diventare personaggio; anche se nella narrazione mantiene tutte le caratteristiche che gli sono proprie nel mondo reale.

Con le parole di Umberto Eco (“I mondi possibili”, in “Sei passeggiate nei boschi narrativi”): 
«Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale. Leggendo romanzi sfuggiamo all’angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul mondo reale. Questa è la funzione terapeutica della narrativa e la ragione per cui gli uomini, dagli inizi dell’umanità, raccontano storie.»

Se leggo un saggio storico, so di leggere un testo di narrativa naturale: voglio acquisire informazioni precise, circostanziali, verificate. Vere. Se guardo un film pensando di fare la stessa cosa, sono uno sprovveduto. La legge di Lidia Poët non è un saggio storico, un documentario: è un’opera letteraria, di finzione, poetica (nel senso greco del termine: “che produce”). Letta nel suo significato, acquista tutto un altro senso. E quale sarebbe?
Immaginiamo una ragazza di oggi, preparata, competente, determinata, che si trovi catapultata nella Torino di fine ‘800. Cosa dovrebbe affrontare, come dovrebbe agire, parlare? La Lidia Poët di Matilda De Angelis è questo, e serve a farci capire, in un certo senso vivere, cosa fosse la vita un tempo, quanta strada si sia percorsa, e per quali tortuose e faticose vie.

Poco plausibile, artificioso? Ma davvero? Pensa un po’, è capitato anche a Marty McFly, e lì nessuno si è scandalizzato o infastidito. Suppongo il problema sia tutto di chi non vuole o non sa capire.








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