Home Recensioni Live King Crimson - Roma, 22 e 23 Luglio 2018

King Crimson
Roma, 22 e 23 Luglio 2018



Roma, 22-23 Luglio 2018 - Auditorium - Parco della Musica - Cavea

Non musica soltanto, come dovrebbe essere, ma spettacolarizzazione della musica.
Questa cosa la si può pretendere e ricevere da gruppi o artisti teatrali, come i Kiss o Alice Cooper, non certo dai King Crimson.
I tre batteristi, argutamente schierati in pole position affinché il pubblico catalizzi l'attenzione anche sul movimento, non soltanto sulla musica, risultano assai scenici e impattanti ma dimostrano inequivocabilmente che Robert Fripp ha capito che, così impostato, il giocattolino rende bene, optando quindi di piegarsi alle regole del mercato, dopo anni di granitica, ferrea volontà in direzione controcorrente.
E' appena il caso di ricordare, infatti, che, da sempre, fino a pochi anni fa, egli assumeva atteggiamenti altamente impopolari, come omettere di ringraziare il pubblico, rifiutarsi di firmare autografi, castrare la tracklist dei pezzi storici (sempre ridotti ad una esigua manciata), addirittura “dimenticare” di salire sul palco per il bis (lasciandolo incredibilmente fare agli altri membri).
Oggi sembra cambiato, convertito alla buona creanza: non sappiamo se rilasci autografi, ma certamente incentra la nuova tracklist soltanto sui cavalli di battaglia, ringrazia il pubblico, lo scruta simpaticamente mettendo la mano alla fronte, arriva pure ad indicare con il dito qualche fan, sale incredibilmente sul palco per il bis e lo suona anche.
Intendiamoci, lo show è assolutamente divertente e coinvolgente, per cui è inevitabile rimanere colpiti positivamente, ma i King Crimson sono altra cosa.
Qui c'è in primo luogo un'inutile ridondanza ritmica.
Bill Bruford, da solo, si sobbarcava il lavoro dei tre batteristi attuali.
Chi esalta questo attuale organico, forse dimentica che questa formazione ce l'ha, un Bill Bruford, e si chiama Gavin Harrison (qui intervistato con Tony Levin da A&B), il quale, però, è purtroppo e troppo spesso relegato a guardare gli altri due (piuttosto modesti, se paragonati a lui), attendendo il suo turno.

L'ex Porcupine Tree è tecnico e freddo, esattamente come Bill Bruford. Ed è proprio questa, la formula ritmica che serve ai King Crimson: un batterista poco tecnico ma caldo e creativo (come Phil Collins, ad esempio), non sarebbe adatto ad una band del genere.
Ne consegue che, nel momento esatto in cui, pur avendo a disposizione un primissimo come Harrison, si decide di estendere a tre il numero dei batteristi, di cui due piuttosto ordinari, si crea un binomio tutto negativo e perverso: da un lato la formula ritmica appare gratuitamente esagerata (l'ha detto anche Bill Bruford); dall'altro, la stessa si manifesta in termini fortemente castranti, laddove si relega il primo a guardare gli altri suonare, costringendolo spesso all'immobilità.
I trielli, quando si verificano, sono soltanto uno sfoggio estetico e scenico.
Molta tecnica, certo, ma votata alla teatralità, che diventa esasperata, piuttosto che sublimata, quando il batterista centrale si gira di lato per suonare piano e tastiere (altra spettacolarizzazione grauita).
Si aggiunga che:
a) un gigante come Tony Levin appare piuttosto in ombra;
b) il tastierista Bill Rieflin è assai evanescente;
c) Jakko Jakszyk, come chitarrista, è quasi da ignorare mentre vocalmente, pur offrendo in generale una prestazione inaspettata, scompare del tutto quando si confronta con Wetton e Belew, stonando su "Starless" e devastando "Indiscipline", laddove vi innesta una melodia vocale totalmente nuova, senza né capo nè coda (che si chiude con un ruffiano "Mi piace", invece dell'originale "I like it").
L'unico che decisamente spicca sugli altri - oltre al puntuale e competente Harrison - è Mel Collins, veramente immenso, sia nelle sue profusioni studiate, sia in quelle improvvisate che, sorpresa, non mancano affatto in questo tour.

Gianluca Livi, concerto del 23 luglio 2018

 

La teatralizzazione nel rock è un fenomeno endemico che ha anche il suo senso (fumi, laser, video, etc) ma, in questo caso, la scelta di Robert Fripp non è di particolare spettacolarizzazione, se non quando mostra il virtuosismo dei batteristi all'interno di una scenografia quasi da orchestra classica (anche lì, nella musica classica, il virtuosismo è comunque spettacolarizzato). 
Il punto di caduta, invece, si realizza quando egli fa passare i King Crimson da gruppo creativo a gruppo live che propone (molto bene) i grandi successi di 50 anni fa, rispondendo quindi ad una precisa domanda di mercato.
Laddove i dischi in studio e, più in generale, la produzione di nuova musica, non sono più redditizi, si valorizza la musica pregressa nell'unico modo possibile: la creazione in una (perfetta) macchina da concerto che però non sforna più musica nuova e sfila mercato alle tribute band.
Questo spiega anche l'assenza di Adrian Belew: con lui sarebbe stato impossibile fare quel repertorio (lo ha ammesso anche lui).
In sintesi, sembra ci si trovi al cospetto di una delle classiche operazioni calcolate a tavolino tipiche del Robert Fripp più ingegnoso e pianificatore.

Alex Marenga, concerto del 22 Luglio 2018

 

Non era serata da pollo fritto e polvere sugli stivali, archetipi dei luoghi comuni cari ai sempre più rari aficionados del Southern Rock. E, di certo, non era la serata più adatta per omaggiare il sound losangeleno, gli impasti vocali o le lucrose charts d’oltreoceano, magari scorrazzando tra le highways infuocate della California.
Insomma, non era serata per edonisti del pentagramma o per bimbi orgogliosamente mai cresciuti, pur se ormai arrivati al traguardo della mezza età.
Senza mezzi termini, questa era la serata del Genio. Perché il Rock ci ha regalato, nell’ultimo mezzo secolo, un esercito di abili mestieranti ed un’oligarchia di illuminati tessitori di note ed ispirate sonorità, ma un ben limitato manipolo di Eletti che hanno saputo sciorinare nel corso di anni e album qualcosa di superiore, e Robert Fripp è uno di questi: il tutto senza essere neppure un virtuoso del suo strumento, almeno non secondo i canoni tradizionali.

Sia chiaro, il boogie torrido e maleducato dei Foghat, tanto per fare un nome a caso, può farmi godere anche più del Re Cremisi, ma non sarò mai tanto stolto da non distinguere la differenza che scorre tra quegli irresistibili artigiani e l’eroico cesellatore di emozioni del Dorset. Perché i King Crimson sono sempre stati autentici esegeti del verbo progressivo, anche nei loro titoli meno ispirati: non soltanto perché non si sono mai sputtanati con porcheriole da fine corsa alla “Love Beach”, ma anche, direi soprattutto, perché non si sono mai baloccati nel sinfonismo come unico linguaggio del genere, a differenza di troppe stanche copie carta carbone di Genesis o Yes. E perché, ancora oggi, quando ascolto “Larks Tongues In Aspic” per la millesima volta, mi sorprendo di certi passaggi spiazzanti come fosse il primo ascolto.
Poi possiamo dire tante cose riguardo quella fresca serata di mezza estate alla Cavea: che tre batteristi, ad esempio, sono pleonastici, ridondanti, insomma inutili (anche se raramente suonano tutti assieme, e quasi mai la medesima parte); e che magari è paradossale, in una line up ad otto elementi, che le parti soliste siano delegate quasi tutte ad un solo musicista, il grande Mel Collins (di cui ancora ricordo una notevole performance londinese al concerto di Jethro Tull & Friends, nel 1994), abile a districarsi tra mille sassofoni ed un paio di flauti.
E però, tornando all’esercito di tamburi, le tre batterie poste in prima fila sul palco (con i restanti cinque coequipeurs alle loro spalle) garantiscono almeno spettacolo, quel giusto entertainment che io pretendo da una performance, a prescindere dalla sua effettiva utilità, un po' come quando, a proposito di batteristi, Tommy Lee fa il giro della morte con un “fortunato” spettatore legato alle spalle.

Ho sentito gente lamentarsi di Jakko Jakszyk - al quale, invece, contesterei solamente l’impronunciabile nome d’arte - “perché canta male”. Molto semplicemente, non è vero. Quello che è vera, è l’impossibilità di confrontarsi con mammasantissima quali Greg Lake o John Wetton senza bruciarsi un po' le penne ma, nel complesso, l’uomo se l’è cavata più che bene, sia come vocalist, sia come chitarrista.
C’è chi invece ha contestato “l’attitudine poco democratica” (sic!) della band, che ha ripetutamente fatto avvisare che non sarebbero state tollerate foto, riprese, registrazioni. Bene! Finalmente un gruppo che investe qualche cosa (c’erano parecchi steward a controllare, suppongo a libro paga della band) per combattere la demenza degli imbecilli che, fosse per loro, starebbero tutto il tempo a filmare il concerto con i loro stramaledetti tablet o smartphones, “dimenticandosi” di VIVERE un’esperienza difficilmente ripetibile, e soprattutto rompendo l’anima (e altre cose, ben più tangibili) a chi malauguratamente venga a trovarsi alle loro spalle.
E il repertorio? Lì bisogna sempre affidarsi alla teoria del bicchiere, se lo si vede mezzo vuoto o mezzo pieno.
Certo, avrei gioito se fossero state eseguite “Exiles”, “Fracture” o “The Great Deceiver”, rimaste purtroppo nell’alveo delle mie speranze frustrate. Tuttavia, se le avessero suonate a discapito, che so, di “One More Red Nightmare” o “Epitaph” avrei comunque rimpianto le assenti.
È incredibile come in troppo pochi abbiano negli anni evidenziato l’abilità di Fripp nel costruire rifferama ipnotico, alienante ed incredibilmente heavy, di una pesantezza a tratti Sabbathiana; e, al contempo, nel disegnare, certo con il decisivo ausilio di mai dimenticati cortigiani quali Wetton e Ian McDonald, struggenti affreschi di melodia obliqua e malinconica come “Peace”, “Moonchild” e soprattutto “Fallen Angel”.
Insomma, due ore e mezzo di grande musica e professionalità siderale, divisa in due parti (con la seconda, ahimè, ben più corta della precedente), separate tra loro da un breve intervallo che ha accresciuto il desiderio, lungi dal rivelarsi un coitus interruptus, per poi raggiungere l’inevitabile climax della sempiterna “21st Century Schizoid Man”, che ha posto termine ad una grande serata.

Giovanni Loria, serata del 23 luglio 2018

 

 


Robert Fripp: chitarra, guitar synth, soundscapes, tastiere
Jakko Jakszyk: chitarra, voce
Tony Levin: basso, contrabbasso, Chapman Stick
Mel Collins: sax, flauto
Bill Rieflin: tastiere
Jeremy Stacey: batteria, tastiere
Pat Mastelotto: batteria, percusioni programming
Gavin Harrison: batteria, percussioni

Data: 22-23/07/2018
Luogo: Roma - Cavea Auditorium Parco della Musica
Genere: Rock

22/07/2018
First set:

Hell Hounds of Krim
Neurotica
Peace: An End
Pictures of a City
Cadence and Cascade
Radical Action (To Unseat the Hold of Monkey Mind)
Radical Action II
Level Five
Moonchild
Bass & Piano Cadenzas
The Court of the Crimson King
Indiscipline

Second set:
Devil Dogs of Tessellation Row
Discipline
Easy Money
Larks’ Tongues in Aspic, Part Two
Starless
Encore:
21st Century Schizoid Man

23/07/2018
First set

Larks’ Tongues in Aspic, Part One
Cirkus
Lizard
Epitaph
One More Red Nightmare
Red
Fallen Angel
Islands
Larks’ Tongues in Aspic, Part TwoSecond Set
Drumsons of the Unconditioned Realms

Second set:
Indiscipline
Moonchild
Bass & Piano Cadenzas
The Court of the Crimson King
Radical Action (To Unseat the Hold of Monkey Mind)
Radical Action III
Level Five
Peace: An End
Starless
Encore:
21st Century Schizoid Man

 

 

 


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