Forse lo è stato per il passato, ma ora come ora non è più facile tirare fuori dal cilindro (raschiatissimo fino in fondo) del metal & similari momenti di gloria o perlomeno una parvenza di stupore valida per ascolti rapiti o genuini, gli anni passano, le passioni pure e quello che una volta elettrizzava ora - al massimo – ci da un brivido a bassissimo voltaggio. Eppure qualcuno ancora dice qualcosa. I lombardi Rhyme con l’album The seed and the savage mostrano che le chiacchiere stanno a zero, e che suonare metal non è solo una sensazione di sfogo fisico e mentale, ma una sacralità atea cui attenersi e propagare come un morbo elettrico ovunque e dovunque, una religione amplificata alla quale genuflettersi; dieci tracce più la cover dei Depeche Mode “Wrong” a destabilizzare i coni stereo e a dimensionare un ascolto integrale di forza e tonalità oscure, un disco che odora di sulfureo e Alice In Chains insieme, tracce che trascinano in una perdizione che prende altri spunti da band dell’Olimpo maudit, Deftones “Slayer to the system”, Audioslave “Party right”, Soundgarden “The hangman” per citarne alcune, ma quello che risalta in sinergia con l’orecchio è la perfetta sincronia d’insieme che la band esercita come un rullo compressore, niente vuoti ma un wall of sound perfetto, istrionico e “a maglio” che s’impone efficacemente senza mai annoiare. Il quartetto mette in dote una performance registrata da applausi sacrosanti, un vero e proprio crescendo stilistico di classe amperica che esplode ed implode come una guerriglia sibilante “Brand new Jesus”, pizzicori sludge compressati “Nevermore”, l’epilettismo ritmico che sbatte in “Victim of downturn”, tutte mine vaganti che durante lo snocciolamento della tracklist lasciano segni, ecchimosi e magnificenze; certo è il metal come lo abbiamo conosciuto da sempre, ma i Rhyme sanno convogliare ad imbuto una rabbia che – seppur non originale al 100% – sa comunque provocare vittime. 75/100
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Gabriele Gozzi: Voce Anno: 2012 |