Messi da parte gli odi personali, riequilibriato l’asse sonoro e finalmente liberi dalla pastoie discografiche che li avevano vessati, tornano gli Skunk Anansie con l’album Black Traffic, il terzo disco dopo la reunion del 2009 e dopo il flop clamoroso dell’ultimo Wonderlustre che li aveva fatti archiviare una volta per sempre nel limbo delle ex-meraviglie del rock; ovvio che far ritornare un pò di colore ad un qualcosa di sbiadito non è cosa facile e a portata di mano. Loro - Skin e soci - ci riprovano con queste undici tracce, con queste giaculatorie elettrificate che se la prendono con tutti, dai poteri forti agli affamatori della società inglese, dai banchieri a tempo pieno fino ad allungarsi alla lotta degli Occupy London, figli diretti di quell’Occupy Wall Street Americano, una incazzatura coi jack e voce che esplode come una carica innescata. "E’ un traffico oscuro quello che si muove sotto l’innocenza di tanta gente e allestito da chi vuole fregarti ripetutamente”, questo l’imperativo che allarma questo disco supersonico fatto di tirate chitarristiche, fughe e approdi convulsi, una voce panterina che frusta la dinamica come un terremoto – ora dolce ora indiavolato – al quale gli Skun Anansie ci avevano abituato nei loro esordi al fulmicotone fino a quel silenzio durato anni; ma anche un disco che se da una parte mostra la felice presa di coscienza di una band alle prese con i disagi di terraferma, dall’altra mette in tutta evidenza una band che rifà se stessa, una formazione ed una forza propulsiva oramai in alto mare, che gira sul suo passato, ferma a giro fisso e che non produce più quella forza motrice in avanti. La "classe Skunk Anansie” è un logo, un marchio di fabbrica che andava bene negli anni Novanta, adesso è stretto e senza via d’uscita, e lo si sente dalla tracklist che tolti gli amarcord amperici di “I will break you”, “Sticky fingers in your honey” o l’epicità arrampicata di “This is not a game”, rimane rivestita da clichè gelosamente appartenenti al vuoto come il pogo plastificato e finto che balzella in “I believed in you” (in cui intervengono innocuamente gli Shaka Point) od il poetame patinato che lucida “Out summer kills the sun”. La bellezza androgina di Skin e il power force degli Skunk è presente, ma manca tutto il resto, una lezione senza studenti che fa rimpiangere gli assalti frontali di un nome, ora come ora, che stupisce meno di un acquisto cui viene dimenticato lo scontrino fiscale. Peccato, ma tutto viene e tutto va. 40/100
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Skin: Voce e chitarra Anno: 2012 |