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Indaco
Vento nel deserto

Utilizzo questo disco tra tutti quelli prodotti dagli Indaco come esempio della loro creatività e del loro coraggio nel coniugare rock e tradizione melodica italiana durante tutto il periodo di attività che è andato dal 1992 al 2007. Il disco fu prodotto da "Il Manifesto" e questo inizialmente lo fece passare quasi inosservato nelle edicole, ma ebbe poi riconoscimenti e successo, anche di pubblico, quando fu reso disponibile attraverso i normali canali distributivi.

La band, per chi non lo sapesse, era stata fondata da Mario Pio Mancini, musicista appartenente all’area new age, e da Rodolfo Maltese, chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso. Il un nucleo base comprendeva anche Pier Luigi Calderoni, noto batterista del rock italiano e anche lui membro della formazione storica del Banco, il percussionista-polistrumentista Arnaldo Vacca, specializzato in strumenti etnici, il bassista Luca Barberini ed il tastierista dall'indole jazz Carlo Mezzanotte.

Rodolfo era talmente coinvolto nel progetto che realizzò anche il disegno per la copertina del primo disco (Indaco) uscito solo in vinile qualche anno prima (era il 1992); secondo lui il disegno rappresentava efficacemente l'idea di musica che gli Indaco volevano suonare: "qualcosa di minimale e di etnico allo stesso tempo".
D'altronde Rodolfo, diplomato alla scuola d'arte, amante della bella figurazione e mio compagno di penna e d'avventura in molte mostre e visitazioni, aveva già fatto performance del genere: forse non tutti sanno che suo era il disegno della parte interna dell'album in Inglese, prodotto dalla Manticore, del Banco; peccato che poi in fase di produzione la resa grafica fu scarsissima.

Tornando alla musica degli Indaco è difficile darne una definizione calzante ad uno schema preciso perché vi convivono diverse anime in percentuali diverse: quella più rock di Rodolfo e Pierluigi, quella folk e jazz degli altri componenti la band, quelle cantautorali, melodiche e classiche derivanti dalle contaminazioni portate dalle numerose e variegate collaborazioni a cui la band era geneticamente predisposta ed aperta. Una sintesi tra culture diverse, un collasso di idee e di magia tra nuovo e tradizione, uno strano miscuglio di mediterraneo ed oriente ... la via maestra verso nuovi percorsi comunicativi che riuscivano ad unire giovani e meno giovani seguendo comunque sempre un filo conduttore: la "mediterraneità" intesa come gusto per la melodia inconscia, la ritmica naturale, la danza, l'interattività popolare. Una musica fatta di sfumature e di cesellature, di sonorità gioiose che ricordano il rock della scuola napoletana (Osanna) e la teatralità di Beppe Barra, una musica che vuole divertire, vuole portare il sorriso... una musica comunque senza vincoli a schemi prefissati e caratterizzata da una libertà espressiva che ha la contaminazione e la lettura trasversale dei generi come filo conduttore, dove il progressive e la fusion della sezione ritmica, le venature jazz dei fiati e delle tastiere, il materico uso delle zampogne e delle fisarmoniche, l'uso etnico ed evocativo della "voce-strumento" si fondono ed amalgamano in uno scambio di emozioni e di racconti; come le storie che attorno ai falò un tempo fluivano e si riperpetuavano di bocca in bocca. Una musica come in una festa, che ti spinge a muoverti, a cantare, ad essere parte dell'ambiente che ti circonda.

Istinto, cultura, storia, esperienza scorrono di brano in brano in un susseguirsi di episodi in cui tutti, band ed ospiti, si affiancano ed offrono il proprio contributo, la propria pennellata, il proprio colore fino a formare il colore più spirituale, il simbolo di risveglio interiore e di contrasto della malinconia... l'Indaco.
Un invito alla meditazione ed alla crescita della propria consapevolezza personale, una musica caleidoscopica che arricchisce perché istintiva, talmente innata in noi da non deperire, da riportarci alle nostre radici riuscendo a toccare corde talvolta sopite.

In una recensione di un masterpiece come in questo caso, non mi sembra significativo analizzare e radiografare ogni brano in dettaglio, come ho accennato nell'introduzione ho usato questo album come pretesto per celebrare una grande band, anomala nel panorama italiano degli anni '90 ma significativa come spunto di partenza per tante esperienze musicali successive.

Ciò non toglie che mi preme almeno sottolineare uno dei brani del disco per la sua storia: lo strumentale "Il Volo del Gabbiano" di Maltese.
Questo pezzo, struggente ed evocativo, era stato concepito per il primo album da solista di Rodolfo che doveva intitolarsi "Il Gabbiano Jonathan" ma che in quel periodo faceva fatica ad essere pubblicato. Ricordo ancora quanto Rodolfo tenesse a questo suo progetto e la felicità quando poi riuscì a pubblicarlo nel 2009; il brano, riproposto, portò la stessa fortuna al "Rodolfo Maltese Group" che in qualche modo mise la ciliegina conclusiva all'esperienza etno-rock-popolare del nostro. Il mio vuole essere un ricordo ad un amico ed anche un riconoscimento ad un grande uomo.

Tornando a Vento del deserto, un disco al di fuori delle etichette, una band della tradizione e della contemporaneità che apre nuovi orizzonti che sarebbe opportuno esplorare. Un pezzo d'Italia che è anche un pezzo di mondo. Una realtà colta che ancora oggi è degna di essere scoperta ed approfondita.


Mario Pio Mancini: mandolini, bouzuki
Rodolfo Maltese: chitarre, Mandolino
Arnaldo Vacca: diembe, doumbek, bendir, bodhrane (percussioni)
Pierluigi Calderoni: batteria
Luca Barberini: Basso
Carlo Mezzanotte: tastiere

Ospiti:
Mauro Pagani: violino
Francesco di Giacomo: voce
Enzo Gragnaniello: voce
Toni Esposito: percussioni
Antonello Salis: fisarmonica
Toni Armetta: Basso
Massimo Carrano: percussioni
Rino Zurzolo: basso

Anno: 1997
Label: Il Manifesto
Genere: Etnica

Tracklist:
01. Su nuraghe
02. Set the controls for the heart of the sun
03. Waitng for the kundalini
04. Vento del deserto
05. Ascea
06. Friendship
07. Green fog
08. Il Volo del Gabbiano
09. Gocce
10. Vision of the sea
11. Tharros

 

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