Home Recensioni Masterpiece Slint - Spiderland

Slint
Spiderland

Gli Slint costituirono la rinuncia del rock. Furono la sua morte e la tomba in cui ne venne seppellita la forma, la cripta dalla quale uscirono gli zombie zoppicanti del post rock tutto, inseguendoci fino ai giorni nostri. Una carriera breve e ingiustamente dimenticata che in due soli album – quindici canzoni – ha segnato la storia. Ho letto un geniale commento su Youtube che ipotizzava che sotto l’acqua in cui sono immersi i quattro, nella fotografia che fa da copertina all’album, stia nuotando il bambimo di Nevermind.

Ciò che stupisce è che in realtà i “sommersi”, i caduti nell’oblio siano proprio i quattro del Kentucky. L’astrattismo del primo album (Tweez, 1989) viene portato, due anni dopo, alle sue più estreme e inevitabili conseguenze, attraverso un minuzioso lavoro di demolizione sui canoni del rock: questo è il punto in cui sono arrivati gli altri, adesso ve lo frantumiamo davanti agli occhi. Le melodie sono tirate tanto da strapparsi e rimanere brandelli trascinati dai controtempi e dai ritmi pesantissimi, monolitici e frammentari al tempo stesso, scanditi da pause che tengono in superficie le chitarre spettrali, torturate fino a rare e magnifiche esplosioni da McMahan, che urla, parla e sussurra, tutto fuorchè cantare, e da Pajo, lo stesso David Pajo che più tardi passerà ai Tortoise – e successivamente ai Royal Trux – e incanalerà la sua vena creativa in tutt’altra direzione (Millions Now Living Will Never Die, 1996), costruendo muri di suono in luogo dei vuoti caotici che qui la fanno da padrone.

Si passano 39 minuti in totale apnea, sospesi tra un’ossessiva batteria ognipresente e graffi metallici, senza un attimo di sollievo o tregua. Tutt’al più si trovano sfoghi, lampi, rabbiose liberazioni, soltanto momentanee (e, verrebbe da dire, “inutili”) per dare aria all’ascoltatore, spezzando ciclicamente i sei lamenti su cui si costruisce Spiderland; si vedano, su tutti, il frenetico ritmo mutilato di “Nosferatu Man, i momenti estatici e sovrastanti del capolavoro assoluto “Washer” e gli ultimi terrificanti secondi dell’album in “Good Morning, Captain”. Quella degli Slint è la musica dell’angoscia e del disagio, della nausea, un tentativo di ipnotizzare e sfiancare chi ascolta. È una continua attesa che prosegue per tutta la durata dell’album senza venire mai soddisfatta.

Ci si trova di fronte ad una rara bellezza, deforme sì, grottesca, che va cercata con la stessa ossessione con cui i carnefici martellano le nostre menti, ma che una volta scovata lascia ammirati e inorriditi, una bestia che cerca di frantumare la teca di cristallo in cui siamo tutti rinchiusi come “ascoltatori” moderni, ormai abituati a definire “rock” ciò che andrebbe chiamato pop, e “pop” ciò che sarebbe in realtà indegno di avere un nome, figurarsi di passare per radio, figurarsi di essere acquistato.



Brian McMahan: Voce e chitarra
David Pajo: Chitarra
Todd Brashear: Basso
Britt Walford: Batteria e chitarra

Anno: 1991
Label: Touch And Go
Genere: Post Rock

Tracklist:
01. Breadcrumb Tail
02. Nosferatu Man
03. Don, Aman
04. Washer
05. For Dinner…
06. Good Morning, Captain

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