Pat Metheny
Roma 20 Luglio 2018

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Roma, 20 Luglio 2018 - Roma Summer Fest, Auditorium Auditorium Parco della Musica, Cavea

Nell’ambito della rassegna musicale estiva organizzata ed ospitata dall’Auditorium Parco della Musica di Roma, il 20 Luglio 2018 l’attenzione è stata rivolta a Pat Metheny, affiancato sul palco dalla bassista malesiana Linda May Han Oh e dal pianista inglese Gwilym Simcock, ma soprattutto dal messicano Antonio Sanchez, oramai immancabile spalla del chitarrista degli ultimi anni.  
Ripercorrendo la carriera di Pat, al secolo Patrick Bruce "Pat" Metheny (Lee's Summit, 12 agosto 1954, Missouri), vale la pena ricordare che egli è stato un chitarrista fondamentale per la crescita e lo sviluppo del chitarrismo “contaminato” di matrice jazz. Egli infatti emerse, a metà degli anni 70, come rivelazione della scuderia ECM (Editions of Contemporary Music) con uno stile in controtendenza a quello dei chitarristi del jazz-rock post-davisiano intriso di distorsioni hendrixiane.
Metheny si è infatti sempre contraddistinto per la peculiare pulizia sonora della sua chitarra semiacustica (hollowbody) appena bagnata da un leggero delay, evoluzione della raffinata scuola jazz  di Jim Hall.
Ma nella sua estetica sono inoltre confluite influenze provenienti dal country-bluegrass e dalla musica popolare brasiliana (MPB), ed il suo fraseggio è molto melodico e cantabile, al contrario dei nervosismi ritmico-velocisti di altri suoi colleghi, il che gli ha permesso di elaborare un linguaggio comprensibile ad un pubblico stratificato su vari livelli di gradimento e di competenza.
Va ricordato infine che Metheny è stato tra i primi ad adottare le innovative chitarre synth (Roland G808/300) sviluppate alla fine degli anni 70, riuscendo a definire un lessico originale e  distintivo in grado di mettere in evidenza le tipiche legature della chitarra su un suono elettronico.
Non a caso la popolarità di Metheny coincise, negli anni 80, anche con il successo commerciale di un “jazz contaminato” sempre più ammiccante a soluzioni formali pop, la cosiddetta “fusion”, che lasciandosi alle spalle le asperità sonore e le sperimentazioni del jazz-rock, permise a molti autori rapide scalate delle classifiche.

Indimenticabili furono infatti le incisioni con il Pat Metheny Group, durante le quali nacque la collaborazione col tastierista Lyle Mays, dando vita, dopo i primi lavori seminali su ECM, alle sue prime produzioni “fusion”,  introducendovi elementi formali prelevati dalla musica popular brasileira, che negli anni 80 era ormai un genere commercialmente consolidato (attorno a figure quali Caetano Veloso, Djavan, Gal Costa o Milton Nascimento).

Successivamente al trasferimento di Metheny su Geffen Records nel 1985 il chitarrista ha affiancato alle produzioni più patinate e commerciali del PMG, che gli hanno permesso di vincere 20 Grammy, dischi più sperimentali, come quelli con Derek Bailey, John Zorn o Ornette Coleman, e anche produzioni di mainstream jazz, dirette al pubblico più tradizionale del jazz classico, che gli hanno permesso di entrare nella Downbeat Hall of Fame come quarto chitarrista dopo Django Reinhardt, Charlie Christian e Wes Montgomery.
Questa diversificazione discografica  gli ha quindi consentito di sopravvivere alla crisi della fusion degli anni 90 che portò alla scomparsa di intere etichette e allo scioglimento dei gruppi più conosciuti, malgrado la maggior parte dei suoi brani più apprezzati dal pubblico risalga a quella fase della sua carriera.

Durante la serata del 20 Luglio, il chitarrista ha quindi attinto al suo vasto repertorio passato. Infatti moltissimi sono stati i brani del PMG, riarrangiati con il nuovo combo.

Come avviene ormai in quasi tutti i suoi concerti, dopo un’introduzione iniziale con la Picasso Guitar, la chitarra a 42 corde costruita dal liutaio Linda Manzer,  l’esibizione è iniziata con “So It May Secretly Begin” (da “Still Life Talking” del 1987) proseguendo su altri classici come “Bright Size Life” (dal disco omonimo 1975).
La scaletta della serata ha poi visto succedersi molti dei suoi classici riproposti con vari arrangiamenti, ed è stato proprio in  questi frangenti che è emerso il ruolo chiave del batterista Antonio Sanchez, che di fatto ha rappresentato il vero alter ego del chitarrista, capace di stimolarlo e di portarlo oltre le consuete soluzioni classiche del suo stile, già proposte innumerevoli volte.
Metheny ha dato vita anche a una serie di duetti con gli altri due musicisti, ma sostanzialmente nei due brani in cui è rimasto solo con Sanchez, uno dei quali è stata una brillante versione di “James” (da “Offramp”, 1982), l’estro di quest’ultimo gli ha permesso di raggiungere i momenti più creativi e originali di tutta la performance.

L’attenzione è stata quindi monopolizzata dal batterista per l’intera durata della esibizione. Non solo quella del pubblico, ma soprattutto quella di Metheny che, sia durante le fasi di duetto, che in quelle al completo con gli altri due musicisti, è sempre stato rivolto fisicamente verso la postazione di Sanchez, quasi a voler dichiarare la sua simbiosi musicale con il messicano.
Oltre ai brani in solitario duetto con il fenomenale drummer, la presenza del basso e del pianoforte è stata infatti , tranne che in alcuni sporadici frangenti, un semplice corollario. I due musicisti hanno infatti visto ridotto a poche note il loro contributo, anche dove invece li si attendeva, restando ad osservare immobili chitarra e batteria rincorrersi in un crescendo di battute. Spesso si è avuta l’impressione che non fosse Sanchez ad accompagnare Metheny, ma piuttosto il contrario.

Quindi un Sanchez di grande impatto sonoro e visivo, capace di prendere l’iniziativa e condurre il proprio mentore fuori dai suoi classici percorsi collaudati ma fin troppo abusati.
Un Metheny quindi tradizionale e rinnovato al tempo stesso dalla personalità dei suoi collaboratori. Onore al merito quindi a Sanchez.
Due anche le meditazioni acustiche in solitaria, che restano momenti molto suggestivi del chitarrismo Methenyano, la seconda delle quali è stato un medley di alcuni dei suoi grandi successi da “September 15” (da “As Falls Wichita to Falls Wichita Falls", 1981) ad Antonia (da Secret Story, 1992), da “This is Not America” (da “The Falcon and The Snowman”, OST, 1985) a "Last Train Home" (da Still Life, 1987). “Song for Bilbao” (da “Travels”, 1982) eseguita col tradizionale suono di brass del Gr300 ha chiuso l’esibizione del quartetto.

L’unica nota dolente del concerto sono stati i problemi acustici che hanno gravato sulla platea e che hanno funestato l’intera esibizione, in particolar modo quella del basso e del pianoforte, spesso (per quel poco che hanno suonato) impercettibili dall’impianto di diffusione amplificato destinato al pubblico nella parte bassa della cavea.
Grazie all’impeccabile professionismo del chitarrista e ad una scaletta che ne ha saputo ripercorrere la carriera,  il concerto è stato  comunque godibile ed interessante ed ha oltremodo soddisfatto le attese degli astanti.

Una serata nella quale si è visto il Metheny che tutti conoscono, ed un Metheny che in pochi si sarebbero aspettato, capace ancora di qualche sorpresa se stimolato a dovere.

 

 

 

 


Pat Metheny: chitarra
Antonio Sanchez: batteria
Linda May Han Ho: basso e contrabasso
Gwilym Simcock:  piano, tastiere

Data: 20/07/2018
Luogo: Roma - Auditorium Parco della Musica
Genere: Jazz-Fusion

 

 

 


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