Gods Of Metal 2008
Day 3

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Bologna, 29 Giugno 2008 - Arena Parco Nord

Anche la terza giornata, purtroppo per i tanti che non amiamo l’abbronzatura fine a se stessa, inizia sotto un sole piuttosto insistente, che non invoglia certo a mettersi in fila ai cancelli: anche da lontano, sotto l’ombra di un albero, comunque, notiamo che la coda non è molto fitta e, pertanto, scorre ancora più celermente che negli altri due giorni.
E’ probabile che alcuni fattori, come la stanchezza per i giorni precedenti, il problema del vicino lunedì lavorativo ed addirittura – sembra assurdo, ma non escludiamo tale ipotesi – lo scarso interesse per gli headliner Judas Priest, abbiano causato parecchie defezioni. Eppure, come vedremo, la giornata è ben più ricca delle altre, almeno dal punto di vista dei metallari ortodossi, visto che non è presente in scaletta alcuna formazione che possa essere avvicinata a sonorità alternative, eccessivamente leggere o troppo moderne.

I primi ad esibirsi sono i The Sorrow, esecutori di un metal-core massiccio, compatto, senza particolari innovazioni stilistiche, ma certamente degni di rispetto, sia perché quello del Gods of Metal è un pubblico molto vario, difficile da affrontare, sia perché l’orario e le condizioni climatiche giocano a loro sfavore. Pochi applausi, quindi, per i The Sorrow, ma anche un piccolo applauso rappresenta pur sempre una vittoria, essendo dovuto all’esiguo numero degli spettatori finora intervenuti e non certo ad una prova insufficiente del gruppo.

Per via di una variazione nell’ordine di esibizione delle band, si presentano sul palco i Nightmare: una esibizione notevole, all’insegna del metal classico con l’aggiunta di qualche venatura epic, dato che il timbro del cantante ricorda quello di Ronnie James Dio. La tecnica, quindi, non manca di certo al gruppo, che, pur senza eccessiva originalità, si dimostra capace di creare un incedere possente e terremotante, come nella canzone “Secret Rules”; dopo una ventina di minuti, i Nightmare salutano in mezzo agli applausi, certamente meritatissimi.

Gli Infernal Poetry sono ormai una realtà consolidata del panorama italiano e non deludono le attese, grazie ad una prestazione travolgente: un buon death, tecnico ed incalzante, abbastanza vario grazie all’uso dello screaming, arricchito dalla partecipazione di un ospite d’eccezione come Trevor dei Sadist durante uno dei brani. Non possiamo fare a meno di notare che gli Infernal Poetry avrebbero meritato ben altra sorte che un’esibizione intorno all’ora di pranzo, salutati da pochi applausi, senz’altro graditi, comunque, perché provengono da mani sincere.

La presentazione di Fratello Metallo ci sembra un oltraggio di dimensioni mastodontiche ai gruppi precedenti: il frate cappuccino, infatti, doveva esibirsi subito dopo i The Sorrow, ma, in tal modo, gli viene concesso un pubblico molto maggiore, a tutto beneficio di chi lo manda, cioè lo Stato Vaticano, per l’ormai quotidiana invasione in ogni settore della vita di uno stato che, almeno in teoria, dovrebbe essere laico; in questo caso specifico, però, l’invasione viene effettuata in un mondo storicamente lontano, essendo la maggior parte dei metallari piuttosto critica verso la religione. Evidentemente al potere interessa che anche i metallari diventino più malleabili e, di conseguenza, maggiormente integrabili nella decadente società che ci circonda, fino al completo abbattimento dell’universo heavy metal. Non sono fissazioni personali quelle che scriviamo, ma l’evidenza dei fatti, visto che, a fine concerto, notiamo persone che indossano la maglietta del frate: è possibile che siano di prezzo minore rispetto a quelle delle band, però la latente invasione vaticana non è più un’ipotesi filosofica, a questo punto, ma è diventata una realtà compiuta, grazie al fatto che il tutto viene preso come uno scherzo o un gioco.
Effettivamente, è difficile pensare che si tratti di roba seria quando, pur accompagnata da musicisti discreti, una “canzone” è un’accozzaglia di parole banali e ripetitive come “Sì!” “Metallo”, “Sì!”, “Metallo ben suonato!”, “Sì!”: un testo del genere, di livello artistico infimo, pari a quello dei brani da discoteca, probabilmente scritto da qualcuno che pensa che i metallari siano esseri stupidi, ci crea per forza di cose qualche perplessità, specie pensando che esiste gente che critica i testi dei Manowar o dei primi Metallica, perché li trova ridicoli. Dopo aver introdotto anche il campionamento di un organo liturgico, unico elemento interessante, anche se prevedibile, il frate intrattiene gli spettatori (che siano suoi fan o semplici curiosi non ci interessa molto, comunque davanti al palco c’era più gente che per gli Infernal Poetry e ciò ci sembra di una certa gravità, ad essere sinceri) con un pezzo riguardante la sessualità, più ritmico che tecnico, di subdolo condizionamento delle masse.
Un’esibizione assolutamente inutile dal punto di vista musicale, utilissima, al contrario, per uno spot pubblicitario in un orario consono agli interessi del Vaticano – e pazienza se ci hanno rimesso le formazioni precedenti, in particolare gli Infernal Poetry. Spesso si sente dire che noi italiani siamo presi in giro da tutta l’Europa: evidentemente ce lo meritiamo, visto che non vogliamo neppure pensare all’immane quantità di risate che si saranno fatti i gruppi stranieri nel vedere un prete sul palco di uno spettacolo heavy metal, cosa che non avviene in nessun festival del mondo, come è naturale che sia.

Per fortuna, subito dopo suonano gli Enslaved, in modo da ripristinare la normalità, anche se il “concerto” di prima lascerà dietro di sé sia strascichi commerciali - come la vendita di CD e magliette, possibilmente esentasse, come altre attività commerciali del Vaticano - che piccoli condizionamenti clericali (questi ultimi anche in chi, vivendo tranquillo nella sua beatitudine, non si accorge di quanto gli accade intorno o in chi non reputa tutto ciò un problema). Gli Enslaved appaiono preceduti da un’intro effettata, che sfocia in un black metal cadenzato: il gruppo sfoggia una tecnica discreta, ma è capace anche di brani tirati come “Bounded by Allegiance”; anche il cantante varia, utilizzando sia lo scream che le clean vocals, specie nei riusciti momenti atmosferici, che giungono molto graditi, in quanto impediscono la monotonia. Band interessante, quindi, non originalissima dal punto di vista della proposta, ma abile ad interessare il pubblico, che nel frattempo si è arricchito di parecchie unità.

E’ finalmente giunto il momento degli Obituary, storici alfieri del death metal: musicisti decisi, a partire dal cantante, dalla voce aggressiva e graffiante, che sostiene degnamente un death tirato ed abbastanza vario, tra accelerazioni e rallentamenti, con qualche passaggio tecnico di buona fattura e vari momenti all’insegna del doom. Alcuni romani, al termine dell’esibizione, conclusa con le note di “Slowly We Rot”, commentano ad alta voce: “S’era rotto li cojoni pure er sole!”. Non condividiamo assolutamente l’affermazione, visto che gli Obituary non sono stati così noiosi, almeno a nostro parere personale; è vero, invece, che il sole viene coperto da una nuvola piuttosto estesa, che accompagnerà il nostro cammino fino al calare dell’oscurità, facendo rifiatare non poco i musicisti e soprattutto le persone, alcune delle quali sono qui da tre giorni e durante i primi due hanno sopportato un sole veramente impietoso.

Quando salgono sul palco i Morbid Angel l’esaltazione è alle stelle, dato che non capita certo tutti i giorni una doppia esibizione death di livello simile a quello della coppia formata da loro e dagli Obituary. Un suono compatto, aggressivo, a tratti feroce, unito ad una voce oltretombale, dà luogo ad un concerto molto energico, grazie a canzoni quali la nuova “Nevermore”, “Immortal Rites” e “Evil Spells”, tratte dal loro primo album o la polverizzante “Dawn of the Angry”, con cambi di tempo molto veloci; il doom di “God of Emptiness”, pesante come un macigno, scatena l’headbanging e la meritata ovazione finale.

Giunge finalmente il turno di Yngwie Malmsteen, che apre con la storica “Rising Force”, dal ritmo tendente al power metal. Subito apprezziamo la buona estensione vocale del cantante Tim “Ripper” Owens, ex membro dei Judas Priest, nonché la preparazione degli altri strumentisti; naturalmente, però, l’attenzione è focalizzata su Malmsteen, appesantito, ma ugualmente spettacolare, sia per le pose coreografiche, che, soprattutto, per lo stile chitarristico. Lo strumento viene brandito nelle posizioni più disparate: dietro la schiena, in ginocchio, in verticale, con il manico rivolto verso il pubblico, rivolgendo calci all’aria. Tra i pezzi ricordiamo le travolgenti “Crucify” e “I’m a Viking”, oltre ad una rielaborazione da brividi dell’Adagio di Albinoni.
Malmsteen si lancia in fughe vertiginose, utilizza spesso il feedback, cambia gli effetti più volte, fino a raggiungere, nei propri doverosi spazi solistici, suoni spaziali ed echi di terremoto; coreograficamente, manda spesso in visibilio la gente, suonando con i denti, facendo roteare la chitarra attorno a se stesso, lanciandola per aria ed infine distruggendola in vari pezzi, che lancia ad un auditorio in estasi, che gli tributa una lunga e meritatissima ovazione. Qualcuno, a dire il vero, gli dà del buffone, secondo noi ingiustamente, visto che il chitarrista sarà, possibilmente, una persona piena di sfrenato egocentrismo, ma ciò a cui abbiamo assistito non può che definirsi spettacolo a 360 gradi.

Si arriva così all’esibizione degli Iced Earth, che fin dall’inizio conquistano la folla con brani abbastanza lunghi, molto travolgenti ed appassionanti. Ciò avviene grazie ad un cantante che spazia abilmente dal gutturale allo scream e che si esibisce anche in qualche acuto discretamente riuscito; lo accompagnano una sezione ritmica affiatata e compatta, nonché chitarre molto melodiche, ma all’occorrenza efficaci nella distorsione, come pure notevoli nel variare da un ritmo cadenzato all’accelerazione verso l’impatto, obiettivo conclusivo. I pezzi, su cui traspare un’evidente influenza legata agli Iron Maiden, sono molto orecchiabili: spiccano “Pure Evil”, coinvolgente, grazie anche ad interessanti assoli, “Ten Thousand Strong”, arricchita da pregevoli cori e piuttosto aggressiva, quindi una storia d’amore lenta, d’atmosfera, che poi cresce in un’accelerazione epic; segue “Travel in Stygian”, marziale, ma anche melodica, con una buona prova di stampo halfordiano da parte del cantante, e l’intensa “The Coming Curse”. Tra i bis ricordiamo “Melancholy (Holy Martyr)”, esaltante grazie alle tipiche cavalcate metalliche ed agli assoli, quindi “My Own Saviour”, aggressiva, ma anche melodica, per finire con l’applauditissima “Iced Earth”.

Siamo giunti, infine, agli headliner della giornata, cioè i leggendari Judas Priest. Il pubblico è notevole, ma ci sembra inferiore a quello dei due giorni precedenti: in ogni caso, possiamo stimare almeno diecimila persone, però aspettiamo di conoscere i riscontri ufficiali degli organizzatori.
Dopo le note di un’intro dapprima soffusa, quindi solenne, infine effettata, realizzata tramite suoni di tastiere e sintetizzatori, parte il cadenzato ritmo di batteria, che è posta più in alto rispetto al palco, quindi entrano gli altri strumentisti, infine Rob Halford, sopra un piedistallo, con tanto di mantello e scettro, che creano un notevole effetto scenico. La canzone “Prophecy”, come tutto l’ultimo album dei Judas Priest, è dedicata a Nostradamus: una bellissima melodia, arricchita da voci campionate, al termine della quale Halford sprofonda lentamente dentro il piedistallo, per rientrare in scena successivamente da uno spazio ricavato sotto la batteria, presentando il mid-tempo “Metal Gods”. Più veloce è il terzo brano “Eat Me Alive”, mentre “Between the Hammer & the Anvil” è dominato dagli acuti di Halford, che squarciano l’aria; seguono “Devil’s Child” e l’esaltante “Breaking the Law”.
Ricordiamo anche la nuova “Death”, dall’intro dark e dall’incedere lento; il brano, piuttosto lungo, si fa solenne e raggiunge vette artistiche notevoli, allontanandosi molto dallo stile a cui i Judas Priest ci hanno abituato nel corso della loro carriera, ma avvicinandosi piuttosto a certi momenti di ampio respiro dell’epoca ormai remota di “Sad Wings of Destiny”, sia nelle musiche che nella prestazione vocale. Halford, vestito ora con un giubbotto dalle frange luccicanti, viene portato nel vano sotto la batteria da un misterioso incappucciato, scatenando il delirio degli spettatori, che applaudono con grande euforia. Tra i momenti clou dello spettacolo ricordiamo senz’altro la ballata “Angel”, che crea un momento altamente poetico; segue “The Hellion/Electric Eye”, veloce, arricchita da ottimi assoli, quindi l’aggressiva “Rock Hard Ride Free”, con una convinta partecipazione della gente durante i cori. La primordiale “Sinner”, mastodontica, per via di assoli stratosferici, è solo il preludio per “Painkiller”, canzone che ha fatto sognare ben più di una generazione di metallari: a dir poco eccelsa, grazie anche alla complicità degli stupendi assoli di Glenn Tipton e KK Downing, della ritmica di Ian Hill e Scott Travis, oltre che di un eccellente gioco di luci; dopo gli scream lancinanti di Halford che hanno fatto scuola a tanti suoi emulatori, anche illustri, gli strumenti chiudono all’unisono per il gran finale.
Mancano ancora i bis, così Halford torna sul palco su una rombante motocicletta: è l’apoteosi, dapprima al suono di “Hell Bent for Leather“, seguita da “The Green Manalishi”. Halford, a questo punto, intrattiene i presenti per oltre due minuti, facendo cantare loro i suoi stessi vocalizzi, con esito discreto; si chiude con il pubblico che canta a squarciagola “You’ve Got Another Thing Comin’”. Prima di andare via, in mezzo al delirio di gente entusiasta, Halford raccomanda: “Keep the metal faith!”, certo che i suoi fan seguiranno tale consiglio per tutta la vita.
Senz’altro una eccellente prestazione, per nulla scalfita da limiti anagrafici, ricca di contenuti artistici e tecnici, ma anche di elettrica aggressività. Classic metal allo stato puro, con qualche incursione nell’hard rock, stile in cui il gruppo fonda le sue radici, che abbandonò abbastanza presto: tale scelta, a rivederla dopo una trentina d’anni, non può che definirsi vincente, dato tutto ciò che ad essa è seguito, power metal compreso, che ha le sue fondamenta proprio in ciò che abbiamo sentito stasera.

In definitiva, gli spettacoli visti sono stati all’altezza della situazione ed il prezzo del biglietto è stato adeguato all’offerta; evitiamo di lamentarci dei suoni non perfetti, visto che non si tratta di un concerto di una sola band, bensì di oltre venti esibizioni e qualche errore può certamente capitare. Buona varietà di generi, anche se la prima giornata è stata veramente all’insegna del risparmio da parte degli organizzatori, che hanno puntato tutto sul fattore Iron Maiden, colmando gli altri spazi con musicisti onesti, ma ben lontani dal restare indimenticabili, esclusi gli Apocalyptica, per ovvi motivi; di gran lunga migliori le altre due giornate, non tanto per gli headliner, entrambi di altissimo livello, bensì per la varietà e la qualità dei gruppi proposti.
A nostro avviso, si sarebbe potuto riservare qualche spazio in più ai settori come epic, doom e black metal, riservando agli esponenti più vicini alla scena alternativa degli spazi appositi in separata sede; è anche vero, però, che non si può avere tutto dalla vita e che non è facile accontentare tutti i gusti. Riconfermiamo l'appunto fatto all’organizzazione in sede di introduzione, appunto che probabilmente è condiviso da tutti coloro che han partecipato al Gods, i prezzi di cibo e bevande, erano veramente esosi, aggiungendo che la presenza di un megaschermo per consentire anche a chi è più lontano di vedere in modo più nitido gli artisti era cosa da tenere in considerazione. Infine, rivolgiamo una lamentela al Comune di Bologna, facendo notare che un po’ d’asfalto nella zona vicina ai bagni avrebbe evitato il formarsi di notevoli quantità di fango, che hanno reso i servizi igienici impraticabili quasi da subito. Torniamo a casa, comunque, con il metallo nelle orecchie, negli occhi e nel cuore, ma anche con un po’ di rimpianto, visto che i più bei sogni sono sempre quelli che durano troppo poco, anche se vengono ricordati molto a lungo.

 


Data: 29/06/2008
Luogo: Bologna - Arena Parco Nord
Genere: Heavy Metal

 

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