Giuseppe Verdi, Ernani Orchestra
Venezia, Teatro La Fenice, 16 marzo 2023

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L’impossibilità di sfuggire alle conseguenze delle nostre promesse, l’impossibilità di tradire i testamenti di cui siamo destinatari: questo è il filo conduttore dell’Ernani di Verdi, liberato da urgenze ottocentesche ormai scadute, come è raccontato nel nuovo allestimento, sobrio e suggestivo, inaugurato alla Fenice il 16 marzo per la regia di Andrea Bernard e la direzione di Riccardo Frizza (una co-produzione con il Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia, in cartellone a Venezia fino al 30 marzo).

Ernani è il secondo dei quattro titoli verdiani proposti in questa stagione di lirica dalla Fenice, che con lungimiranza porta così sul palco accanto alle opere più famose, come l’ultimo capolavoro della maturità verdiana, il Falstaff, con cui si è aperta la stagione 2022-2023, e, a settembre, la Traviata, anche lavori del Maestro bussetano che è più raro vedere rappresentati, come nel prossimo autunno I Due Foscari e appunto, ora, l’Ernani: un lavoro giovanile sì, ma non acerbo, che però dopo aver goduto di enorme successo nei primissimi anni di rappresentazione finì progressivamente nel cono d’ombra delle più celebri opere di Verdi, tanto che pure in età contemporanea è arrivato raramente in cartellone (qui alla Fenice non veniva eseguito da oltre trent’anni).

Siamo quindi nel 1843, e il trentenne Giuseppe Verdi riceve la sua prima commissione dal Teatro la Fenice. L’astro nascente della musica italiana ha alle spalle quattro opere, non tutte di successo, ma fra queste c’è il Nabucco, che nel 1842 è stato accolto trionfalmente alla Scala: la parabola ascendente di Verdi ha avuto inizio. Ora per il suo primo incarico veneziano il compositore si mette alla ricerca di una storia particolare, che delinei i personaggi in modo nuovo. La scelta ricade su un’opera recente: il dramma in cinque atti “Hernani” di Victor Hugo, un lavoro innovativo la cui storia è ambientata ai tempi della Spagna di Carlo V, lavoro che segna per molti versi l’inizio della rivoluzione romantica in Francia, e che al suo debutto, nel 1830, aveva fortemente diviso l’esigente pubblico transalpino, tra i tradizionalisti, avversi al lavoro di Hugo, e i “giovani”, ovviamente entusiasti dello svecchiamento delle convenzioni teatrali. È interessante qui rilevare che quando Verdi, poco più di dieci anni dopo, sceglie il soggetto dell’Hernani, si ripresenteranno alcune delle medesime difficoltà che aveva già dovuto affrontare Hugo, pur in un contesto politico sensibilmente diverso: infatti Verdi e il suo librettista, il poeta muranese Francesco Maria Piave – per i quali cominciano allora una collaborazione ventennale, a volte difficile, e l’amicizia di un’intera vita – devono anche loro cercare prima di tutto di schivare i pericoli della censura. Il problema è che il soggetto di questo dramma racconta di una cospirazione che mira al regicidio, e, cosa che forse è ancora più grave nel regno Lombardo-Veneto rispetto alla Francia, “Hernani, o L’Onore Castigliano” potrebbe essere visto (e difatti qualche anno dopo lo sarà…) come un inno alla rivolta contro l’occupante straniero. Piave e Verdi riescono però ad aggirare abilmente i controlli di censura e d’altro canto, se proprio vogliamo essere sinceri, il III Atto, intitolato “La Clemenza”, presenta l’imperatore asburgico sotto una luce decisamente favorevole.

Se quindi il motivo politico e ideologico può correttamente essere considerato un po’ ambiguo o comunque ambivalente, e, come abbiamo già suggerito, ampiamente scaduto e non più rilevante oggi, è altrove che il vigoroso lavoro di Verdi sul soggetto dà i risultati più interessanti. Innanzitutto lo stile e il ritmo: Verdi costringe Piave a tagliare descrizioni, recitativi, spiegazioni – dove non arriverà il testo, ci penserà la musica a dare la giusta tonalità emotiva-caratteriale ai personaggi. Verdi esige – sono sue parole – “molto fuoco, azione moltissima e brevità” – e l’attenzione deve concentrarsi sullo scontro, passionale, finanche violento, tra i quattro personaggi principali: il tenore Ernani, bandito (ma in realtà il nobile Don Giovanni d’Aragona), il baritono Don Carlo Re di Spagna e futuro Imperatore, il basso Don Silva Grande di Spagna, e l’eroina del dramma, la soprano Elvira. È una storia di onore, vendetta, pietà e destino, racchiusi entro i due poli tematici dell’amore e della morte. Verdi non si perita di mettere a dura prova gli interpreti principali, scrivendo una musica ricca, colorata e varia e parti per voce di notevole difficoltà esecutiva – soprattutto per la soprano – sia negli assoli che nei numerosi duetti e terzetti o addirittura quartetti.

Complessivamente si può forse rimproverare al giovane Verdi un eccesso di brevità che rende non sempre agevole seguire lo sviluppo narrativo dell’opera, e a Piave qualche ingenuità testuale, ma l’opera è concepita come un’accelerazione costante, con il terzo e quarto atto che scorrono velocissimi e avvincenti fino alla tragedia finale, e qualche piccola imperfezione non è certo di ostacolo al piacere della fruizione. Così d’altro canto dovettero pensarla gli spettatori, se non della Prima assoluta del 9 marzo 1844 (fu un esordio un po’ faticoso), sicuramente delle repliche successive, che furono un grande successo e ne favorirono la rappresentazione negli altri grandi teatri, a partire dalla Scala (qualche anno dopo, a Parigi, Hugo stesso ne fu spettatore, ma pare che la versione verdiana del suo dramma non l’abbia entusiasmato).

Quasi centottanta anni dopo il giovane regista Andrea Bernard – con l’aiuto di Andrea Beltrame alle scene ed Elena Beccaro ai costumi – attualizza Ernani con una narrazione quasi minimalista, essenziale. Molto degli effetti di senso è trasmesso attraverso il colore e le quinte mobili, che scendono fino a terra o, alternativamente, restano sospese nell’aria: abbiamo il bianco quasi marmoreo del Castello di Silva (primo e secondo atto), il nero su cui staccano colonne luminose della cripta di Carlo Magno ad Aquisgrana (terzo atto), e poi i coriandoli dorati su sfondo blu delle nozze di Ernani ed Elvira e di nuovo i colori tetri del finale tragico (quarto atto) a riprendere tematicamente il preludio filmato in bianco e nero. Elvira, una impeccabile Anastasia Bartoli, l’elemento rosso fuoco del melodramma, si muove lungo la storia come eroina coraggiosa e positiva che risveglia la dignità d’animo degli interpreti maschi, tutti e tre innamorati di lei e tutti e tre spesso non all’altezza della loro posizione (manifesta – Don Carlo e Don Silva, od occulta – Ernani), perché travolti da passione eccessiva e pure egoismo. Re Carlo, il baritono Ernesto Petti, molto applaudito, acquisirà piena dignità regale e, diremmo, piena maturità, solo nel terzo atto, dopo l’elezione imperiale, dimostrando quella clemenza, magnanimità e controllo delle passioni che ci aspettiamo dai grandi sovrani. Ottima anche la difficile parte di basso, il secondo antagonista Don Silva, qui interpretato da Michele Pertusi, l’unico vero cattivo di questo dramma, colui che esige da Ernani il supremo sacrificio in nome dell’onore. Possiamo forse intendere che non condonare una promessa fatale possa avere qualcosa di demoniaco? Così la pensava Verdi, che a Silva – morto Ernani – affida le ultime terribili parole del dramma: “delle vendette il demone qui venga ad esultar”. Infine il tenore Ernani, il nobile in incognito, il fuorilegge che ha acceso il cuore di Elvira e le speranze dei congiurati che vorrebbero Carlo morto: Piero Pretti – che ritornerà quest’anno con Verdi alla Fenice nei panni dell’Alfredo Germont della Traviata – è qui un bandito appassionato, orgoglioso, vincolato all’obbligo di vendicare l’onore del nobile padre – la cui casata aragonese è stata portata alla rovina da Carlo – anche innamorato sì, per quanto nemmeno l’amore per Elvira potrà aver la meglio sul destino di morte cupamente suggerito fin dall’ouverture.

La direzione musicale di Riccardo Frizza guida l’orchestra con maestria e privilegia, nelle sue parole, una concertazione che esalti l’impegnativa parte belcantistica dell’Ernani; allo stesso tempo accompagna efficacemente lo sviluppo narrativo – come abbiamo visto sopra non sempre lineare – della storia, e nei due momenti puramente musicali, l’ouverture iniziale e il breve preludio all’atto terzo, conduce efficacemente lo spettatore in una tonalità emotiva di commossa trepidazione e inquietudine.

Ma è già il tempo in cui il “demone” Silva fa suonare il corno richiamando Ernani alla sua infelice promessa: “Se uno squillo intenderà, tosto Ernani morirà”. Il disgraziato si suicida – questa volta nulla possono la saggezza e il cuore di Elvira – il pubblico applaude, sempre più convinto, e poi applaude ancora e con calore quando l’intero cast si presenta sul palco: un’interpretazione che fa finalmente apprezzare l’Ernani, abbiamo sentito dire in teatro, e noi approviamo convintamente, a dispetto di quell’isolato tradizionalista che proprio come ai tempi di Hugo si avverengiava sul gusto lezioso di andare a teatro per aversene a male delle innovazioni. Lungi da noi!

Godiamoci invece questo nuovo bell’allestimento dal primo momento in cui si spengono le luci fino al commovente, tremendo, finale: “Delle vendette il demone qui venga ad esultar”.

 

 

 


Direttore: Riccardo Frizza

Regia: Andrea Bernard

Scene: Alberto Beltrame

Costumi: Elena Beccaro

Light designer: Marco Alba

Maestro del Coro: Alfonso Caiani

Interpreti principali

Ernani: Piero Pretti

Don Carlo: Ernesto Petti

Silva: Michele Pertusi

Elvira: Anastasia Bartoli

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice

 

 

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