Stefano D'Orazio (POOH, IL PUNTO)

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Intervista effettuata da Gianluca Livi
Domande selezionate da Gianluca Livi e "Eric" G. Laterza


Introduzione

Stefano D'Orazio non è soltanto il batterista e uno dei cantanti dei Pooh, ma è anche un fine paroliere nonché flautista e produttore.
Nel corso della sua lunga carriera, ha maturato esperienze musicali nelle compagini pop, beat e prog che, tra le altre cose, lo hanno portato a partecipare - quale membro della band Il Punto - ad uno dei più importanti raduni degli anni '70, il 2° Festival di Caracalla del 1971, unitamente ad artisti e band del calibro, tra gli altri, di Lucio Dalla, Osanna, Brainticket.
Con la simpatica e schietta attitudine che da sempre lo contraddistingue, ci ha parlato di quel periodo, dei Pooh, attuali e passati, dei suoi progetti solisti.


POOH


Intervista


A&B: Stefano, mi piace partire dagli inizi, prima dei Pooh. Tralasciando la tua esperienza tra le fila dei molteplici gruppi di estrazione beat di inizio ’70 (I King, The Sunshines, I Naufraghi, The Planets, Pataxo and the Others), la tua militanza ne Il Punto merita un’attenzione particolare. Appartenente alla rosa di gruppi minori del progressive italiano, questo quartetto, in realtà, conserva oggi una certa importanza, non soltanto in seno allo specifico movimento musicale. Per prima cosa, infatti, fu fondato da Alberigo Crocetta, proprietario del leggendario Piper Club di Roma, noto peraltro per aver contribuito allo sviluppo delle carriere di Patty Pravo e dei Primitives.

Stefano D'Orazio: La formazione con Vincenzo Pagliarini, Mario Bertolami e Sergio Gallinelli e me, nasce nell’estate del 1969 come band di Farida, una cantante lanciata dall’RCA con “Vedrai, vedrai”, cover di Luigi Tenco. L’incontro con i miei nuovi colleghi fu fulminante: non avevo mai sentito parlare di loro, ma appena incrociammo qualche nota, capii subito che non erano degli sprovveduti. Vincenzo, con i capelli a mezza spalla, armeggiava con la sua Fender Stratocaster e mi impressionò per la velocità con cui le dita gli scorrevano sul manico: aveva una mano sinistra da panico e una tecnica incredibile. Mario stava cambiando le corde del suo basso e nel frattempo mi aggiornava sul repertorio che avremmo messo insieme, mentre Sergio, piccolo e strafottente, ostentava una faccia da santarellino tanto che lo ribattezzai quasi subito Biancaneve. Finalmente, arrivò Farida (1), davvero una ragazza bella, dai lineamenti fortemente arabi, ma con uno spiccato accento siciliano: avrà avuto vent’anni e scoprii essere di Messina. La storia dell’Egiziana, che le avevano cucito addosso, era stata una trovata dell’ufficio stampa RCA ma in realtà si chiamava Concetta Gangi: doveva fingere, per contratto, di non conoscere l’italiano e vestire sempre con abiti che la facevano apparire come moglie di un Faraone. 
Ebbi la sensazione di trovarmi alle solite: un gruppo con le palle costretto ad accompagnare una sfigata. Con questa convinzione, dopo i convenevoli di rito, cominciammo a suonare. Il primo brano che decidemmo di affrontare fu “Io per lui”, la versione al femminile di “Io per lei” dei Camaleonti, e Farida, sin dalle prime note, ci fece subito capire che era una cantante con i controcoglioni e che, caso mai, gli sfigati eravamo noi. Facemmo un bel tour: Farida cantava meno di un’ora, come si conveniva ai tempi con le “attrazioni”, e noi tenevamo su il resto della serata. Mettemmo insieme un bel repertorio: facevamo pezzi di Who, Colosseum, King Crimson, Jimi Hendrix, insomma tutta roba tosta dove Vincenzo rendeva al massimo. A fine estate, finito il tour con Farida, avremmo dovuto sciogliere le file ma noi quattro, visto l’affiatamento che avevamo raggiunto, decidemmo di continuare a fare musica insieme. 
Facemmo una serie di serate a Ronciglione e dintorni, rimediate chissà come, e ci “intitolammo” provvisoriamente, non so per quale filo logico, “Stephano e il Catrame”. Realizzammo degli orrendi manifesti e ci buttammo nella Tuscia. Nonostante il nome, pareva che il gruppo funzionasse e così contattai Crocetta per convincerlo a farci fare un provino al Piper. In completo anonimato, ormai senza nome (perché “Stephano e il Catrame” non avrebbe deposto a nostro favore), una sera in mezzo alla settimana facemmo il nostro provino e il giorno dopo Crocetta mi convocò nel suo ufficio a Piazza Mincio, stabilendo che eravamo forti. 
Ragionammo per tutto il pomeriggio sul nome da dare al gruppo e alla fine a Crocetta venne fuori “Il Punto”: lui era convinto che la “p” gli portasse fortuna: il Piper, Patty Pravo e i Primitives ne erano la testimonianza e così si diceva sicuro che “il Punto” avrebbe funzionato. Io concordai, ma ci misi del mio: “Il Punto” andava bene, ma non inteso come segno di interpunzione, ma come participio passato del verbo pungere: “colui che è stato punto”. Dio come me la menavo!
Crocetta incaricò Gordon Fagetter, il batterista dei Cyan Three, fidanzato di Patty Pravo e pittore di talento, di inventarsi una grafica per quel nome e Gordon si presentò qualche giorno dopo con una scritta ovale che diventò il nostro logo. Facemmo un servizio fotografico con il fratello di Mario, appassionato di fotografia, e, non avendo abiti adeguati, decidemmo di farci fotografare a torso nudo. Ne venne fuori un manifestone a sfondo nero che, per il nostro debutto al Piper, incartò i muri di Roma. Rimanemmo su quel palco per quasi un mese, coccolati dai Paiperini.

A&B: In seguito, il successo vi portò a frequentare altri locali...

Stefano D'Orazio: Acquistammo un vecchio pulmino che, in un paio di notti, nella carrozzeria di un amico di Sergio, alla Bufalotta, verniciammo color amaranto stampando sul muso, al posto del marchio Volkswagen, il nostro logo. Era uno schianto! Crocetta ci regalò l’impianto voci dei Four Kents e da Cherubini, sempre a suon di cambiali che ormai firmavo sulla fiducia e in piena autonomia, acquistammo un impianto luci della Davoli con otto fari colorati ed una centralina che, con un sensore attaccato alla cassa della batteria, li faceva accendere e spegnere a tempo di musica, ad ogni colpo di pedale. Il nostro cachet balzò in tempo reale a 150.000 lire a notte e cominciammo a lavorare a raffica. I locali romani nati sulla scia del Crocetta-System ci spalancarono le porte: il Titan, il Kilt, il Vun Vun, diventarono in brevissimo di casa e non eravamo più noi a cercare gli impresari, ma gli impresari a cercare noi. Ormai sembrava fatta e questo ci autorizzò a caricarci di debiti per acquistare una strumentazione seria. Avevamo un bel repertorio ed una bella grinta. Vincenzo era davvero straordinario e faceva la differenza: in qualche assolo suonava con i denti, come avevamo visto fare a Hendrix, oppure strusciava sulle corde un archetto di violino ottenendo suoni ed effetti mai sentiti; io nei blues facevo lunghe introduzioni con l’armonica a bocca e poi mi abbandonavo, dietro alla mia mastodontica batteria, ad estenuanti assoli tra riff e convenzioni con Mario e Vincenzo; Sergio saliva in piedi sull’organo e suonava cavalcando le tastiere... Insomma, una raffica di “virtuosismi” al limite della cazzata che suscitavano sempre grande stupore e scroscianti applausi. Si accorse di noi Pino Tuccimei, un impresario romano che faceva lavorare gruppi di serie A come Osanna, Trip, Pooh, Metamorfosi, Rokketti (2) e via così: ci venne ad ascoltare al Vun Vun e a fine serata entrò nel nostro camerino e ci conquistò con la sua simpatia e la sua concretezza. Crocetta ci alternava tra i due Pipers di Roma e Viareggio, mentre Tuccimei ci riempiva il calendario per tutti gli altri giorni. Milano, Brescia, Torino, Verona, Napoli, Bari, ma anche Cerignola, Frosinone, Bardolino, Grosseto, Andria e via andando: raramente avevamo degli off e spesso, nei giorni fermi, decidevamo di non ritornare a casa perché era più lo stress ed il tempo che passavamo sul pulmino che quello che ci rimaneva per frequentare amici, fidanzate e famiglie. Rimbalzando tra un locale e l’altro, dall’Adamello all’Etna, fondemmo il motore del Volkswagen un paio di volte finché non decidemmo di venderlo per passare ad un Transit Ford, che era il mezzo ufficiale di tutte le band d’Europa: lo arricchimmo su tutti i lati con il nostro logo e ricominciammo a girovagare lasciando in ogni città pezzi di cuore e pelli sfondate.

A&B: Parlando de Il Punto, ho sempre pensato ad un complesso dai modesti riscontri. Invece, documentandomi per questa intervista ho dovuto cambiare idea. Voglio dire, pur rimanendo una band di culto, all'epoca foste piuttosto attenzionati....

Stefano D'Orazio: "Ciao 2001", il settimanale di musica più prestigioso di quegli anni (3), ci dedicò una copertina e il paginone centrale, e noi ci montammo definitivamente la testa. Eravamo diventati famosi!
Ad ogni passaggio nella capitale mi presentavo nell’ufficio di Tuccimei con una valigetta di contanti che rappresentavano il 10% di sua competenza dei nostri guadagni: all’epoca non c’erano ancora tetti alla valuta cash, ma soprattutto non c’erano fatture, agibilità, bonifici o assegni: tutto avveniva brevi manu! Il gestore ci pagava in contanti e noi in contanti pagavamo alberghi, ristoranti, autostrada, benzina, meccanici, cambiali degli strumenti, tipografie per i manifesti e così via, fino appunto alle percentuali a chi ci procurava le serate. Mai una ricevuta, mai un pezzo di carta, niente di niente: se all’epoca qualcuno avesse nominato il termine “fattura”, noi avremmo pensato trattarsi di nefasti sortilegi. Tuttavia, erano le ultime ore: il mondo della musica stava diventando un business e con il business, giustamente, arrivano le regole. Noi ci mettemmo un bel po’ a capire questa novità...

A&B: Tu hai preso parte - da protagonista, quale membro de Il Punto – ad uno dei più importanti raduni dell’epoca: il 2° Festival di Caracalla nel 1971 (unitamente a Lucio Dalla, Osanna, Brainticket, Panna Fredda, Le Esperienze, Fiori di Campo, Il Ritratto di Dorian Gray, Free Love, Four Kents, Blue Note). Impossibile non chiederti una testimonianza di quello straordinario evento.

Stefano D'Orazio: Era il secondo anno che Pino Tuccimei organizzava il Festival Pop di Caracalla (4) e questa volta ci aveva infilati nel cast. C’erano i Four Kents, i Free Love, gli Osanna, i Panna Fredda, le Esperienze, Lucio Dalla accompagnato dai Pooh, i Brainticket, il Ritratto di Dorian Gray ed un sacco di altri gruppi belli tosti.
Il palco era quello enorme dove d’estate si svolgevano le opere liriche. Il biglietto costava 300 lire, ma nessuno sembrò impressionato dalla cifra tant’è che un pubblico sconfinato era accampato nella platea senza sedie ed arrivava fino alle mura dell’acquedotto.
Erano i primi di Maggio e a Roma era praticamente già estate: erano stati programmati due giorni di musica non stop, ma la cosa andò talmente bene che all’ultim'ora venne aggiunto un terzo giorno, con una sorta del “Meglio di…” in cui si concedeva spazio ad ogni gruppo, che poteva esibirsi per una buona mezz’ora dando fondo a tutte le proprie carte.

A&B: C'era un po' il desiderio di evocare le atmosfere dei grandi raduni stranieri di pochi anni prima?

Stefano D'Orazio: Ovviamente sì. La eco dei megaconcerti di Woodstock e dell’isola di Wight era ancora nell’aria e c’era una gran voglia, sia da parte dei gruppi, sia del pubblico, di emulare quanto visto al cinema su quegli straordinari eventi. Tende canadesi montate in ordine sparso, spinelli finti e veri che circolavano sopra e sotto al palco, ragazze con le tette al vento che ballavano a piedi nudi, ragazzi abbracciati che si aggrovigliavano avvolti da coperte colorate... insomma, volevamo stupirci di noi stessi, della serie anche noi “facimme 'o rock”, come dicevano gli Osanna.
Tuccimei, direttore artistico del festival, era costantemente circondato dai portavoce degli artisti presenti che ne inventavano ogni scusa per riuscire a farsi spostare in scaletta il più tardi possibile: “i ragazzi sono bloccati nel traffico” oppure “il chitarrista è al pronto soccorso” o ancora “è caduta una coca-cola nella tastiera”, insomma un vero delirio. In realtà eravamo tutti infrattati tra i ruderi del retropalco in attesa delle tenebre per poter usufruire di quella marcia in più che le “luci” avrebbero dato alle performances. Noi eravamo “raccomandati” e dovevamo salire alle 21, ma più ci si avvicinava alla notte, più i gruppi in scaletta se ne stavano inguattati, così Tuccimei, a corto di sostituti, al grido di “the show nast go on" ci impose di salire. Erano le 19 del 7 maggio di quel 1971 e noi, annunciati dal mitico Eddie Ponti, ci trovammo a tradimento sul palco di Caracalla, prima dell'orario previsto. Apparve la batteria e subito dietro ci materializzammo anche noi. Non era stato certo un ingresso trionfale, eravamo visibilmente contrariati, ma Vincenzo, infilato il Jack della sua Stratocaster nella testata in dotazione, scaricò una raffica di note a volume da arresto che riportò l’entusiasmo nella platea. Quattro botte ai tamburi, un paio di colpi di basso, una smanazzata all’Hammond ed attaccammo la nostra performance.
Mezz’ora di musica sotto al sole che non voleva tramontare con le nostre luci - che avrebbero dovuto fare la differenza inseguendosi a tempo di musica - ignorate da tutti. Prendemmo comunque la nostra buona dose di applausi e scendemmo dal palco imbufaliti ma felici. Non sapevamo di aver partecipato ad un evento che sarebbe diventato storico. Di lì in poi, la musica e il modo di usufruirne, cambiarono profondamente. Della nostra partecipazione a Caracalla, se ne scrisse bene e qualcuno titolò esagerando “Il Punto, Reduce dai trionfi di Caracalla...”, e noi la prendemmo sul serio.
L’11 di maggio ci infilammo in sala d’incisione e realizzammo con la Beat Records Company il nostro primo 45 giri: “Il mio mondo”. Nunzio, il fratello di Mario, ci scattò la foto di copertina davanti al Palazzo dei Congressi dell’Eur con tanto di sfondo di bandiere sventolanti che facevano molto “international”. D’altra parte il testo che avevamo scritto in condominio recitava, tra l’altro, “Io, e poi io, la mia bandiera….” quindi il riferimento didascalico ci stava in pieno.
Il disco uscì in sordina: qualche trasmissione radiofonica nel cuore della notte, un paio di articoli su “Ciao 2001” e “Titan Avangarde” e, per il resto, il solito porta a porta tipo Testimoni di Geova tra i DJ dei locali più di tendenza. Comunque, con quel biglietto da visita, spedito da Tuccimei a tutti gli “addetti ai lavori”, se non altro ci guadagnammo un po’ di complimenti e sicuramente qualche contratto in più.

A&B: Il punto partecipò anche al 2° Festival di Villa Pamphili, nel 1972 (5), assieme a band del calibro, tra le tante di Van Der Graaf Generator, Banco del Mutuo Soccorso, Hawkwind.

Stefano D'Orazio: Sì, vero, ma io nel frattempo ero trasmigrato nei Pooh e di quell’evento ne sentii soltanto parlare dai miei ex colleghi in una di quelle tante sere in cui ci si incrociava in qualche angolo d’Italia.


A&B
: L'unico album de Il Punto, “In nome del popolo italiano” (colonna sonora del film omonimo), impegnava la band nel solo lato A ed era costituito da quattro brani strumentali a vocazione orchestrale, uno dei quali, peraltro, suonato con l’ausilio di musicisti classici (6). Una cosa a dir poco sorprendente se si pensa che in Italia, i grandi gruppi dediti alle colonne sonore (Goblin, Libra, ecc.) sarebbero giunti più tardi.

Stefano D'Orazio: Del Punto rimasi il “fondatore”, come mi definivano, ma dopo di me, Pagliarini, Bertolami & C. fecero delle cose egregie.
Incisero questa interessante colonna sonora per un film di Bolognini, “In nome del popolo italiano”, facendo del loro “Progressive” un pionieristico esempio di contaminazione Rock-Sinfonica, ripreso poi in altre colonne sonore da altri importanti gruppi.

A&B: Eri ancora presente nella formazione quando il brano “Layala” venne censurato dalla commissione Rai per la presenza nel testo della parola “hashish”?

Stefano D'Orazio: No, ero già nei Pooh a farmi censurare “Pierre” perché parlava di omosessualità!

A&B: A proposito di censure, giungendo finalmente ai Pooh (e mi scuso se ne parlo soltanto alla nona domanda), a parte il brano “Brennero '66”, censurato nel 1966, non è dato sapere se i testi dei Pooh furono effettivamente soggetti a successive analoghe azioni di revisione. Quale co-paroliere del gruppo, puoi riferirci se vi siano state altre occasioni di censura ai vostri danni (oppure sei i Pooh stessi, temendo interventi esterni, effettuarono preventivamente tagli o rettifiche)?

Stefano D'Orazio: Nel ’76, nel nostro primo album autoprodotto, “Poohlover”, incidemmo 10 brani che parlavano tutti di emarginazione: prostitute, gay, zingari, immigrati, extraterrestri, insomma tutto un campionario di personaggi messi all’indice dal comune senso di tolleranza. La Rai trasmise solo “Linda”, l’unica “canzone d’amor” che faceva parte di quell’LP. Il resto dei brani diventarono diventò “famoso” sul campo, e diede una svolta importante alla nostra scrittura e ai nostri Live.

A&B: Tu hai condiviso con Valerio i ruoli di batterista e paroliere. In quale dei due lo hai sempre visto inarrivabile e perché?

Stefano D'Orazio: Tra me e Valerio c’è sempre stato uno straordinario rapporto di complicità, basato sull’autoironia e su una visione della vita decisamente disincantata. Mi piace l’idea di ricordarlo estrapolando una considerazione fatta su di lui sul mio libro “Confesso che ho stonato” dove, parecchio prima che inaspettatamente se ne andasse, lo raccontavo così:
Valerio, insieme a Roby, è stato fondamentale nel successo dei Pooh: le sue storie, il suo linguaggio, la sua poesia così distante dall’immagine guascona che ha sempre voluto dare di sé, sono stati gli ingredienti vincenti delle nostre canzoni e i suoi testi “importanti” non hanno minimamente risentito del peso del tempo, perché sono affreschi che il tempo lo raccontano e che, miracolosamente, ne sono fuori. E’ spesso riuscito ad incastrare storie che sembrano film, in canzoni di tre minuti: a mettere un elefante in una cabina del telefono, come spesso gli veniva da dire, e stranamente il suo elefante infilato in qualunque canzone, riusciva a muoversi come fosse nella savana. Ho cercato di imparare da lui e se qualcosa ho messo insieme glielo devo. Mi ricordo quando scrissi il mio primo testo poohico: “Eleonora mia madre” glielo lessi e con due cappottamenti di parole, spostando aggettivi prima o dopo rispetto a come li avevo scritti, fece di una canzone una poesia. 
E a pensare che Negrini è tutto ed il contrario di tutto: sempre fuori dagli schemi, intollerante ad ogni regola, senza diplomazia, ma dotato di un talento che all’occorrenza riesce a tamponare la sua pigrizia. Senza il benché minimo senso del denaro ha sempre vissuto la sua vita “rotolando e respirando”. E’ stato fumatore da 300 Marlboro a settimana riuscendo a smettere da un giorno all’altro quasi per scommessa, grande bevitore ed improvvisamente astemio anche se il suo motto è sempre stato: “meglio un ubriacone famoso che un alcolista anonimo”, ha pesato 150 kili per poi tornare in sei mesi ai suoi settanta di sempre, è l’unico essere umano che si è rotto un dito giocando a tombola infilando con troppa foga la mano nel sacchetto dei numeri, ha preso la patente a 30 anni e a 31 ha corso in formula tre, ha girato il mondo imparando 10 lingue e collezionando malattie tropicali come fossero francobolli, e soprattutto ha scritto più di 500 canzoni oltre la metà delle quali decisamente belle. Credo che tra una cinquantina di anni Negrini lo studieranno a scuola con pochi altri contemporanei.
Bugiardo quanto basta quando deve mascherare la sua pigrizia, è arrivato a scrivere testi in taxi durante i tragitti verso le sale d’incisione dove l’aspettavamo per i provini, presentandosi con foglietti stropicciati, dove neanche lui era in grado di capire la sua calligrafia. Ma poi all’improvviso, con una zampata di genialità, ci stendeva tutti con uno di quei suoi piccoli capolavori che nel tempo hanno fatto la differenza.
Io, si sarà capito, ho una stima spericolata per il pessimo Negrini e nonostante lui, gli voglio un gran bene.
Così lo raccontavo e così mi piace ricordarlo.

A&B: All’atto del tuo ingresso nei Pooh, e continuando Valerio a gravitare nell’orbita del gruppo, sentivi la sua presenza come invadente? Voglio dire: come batterista, ti sentivi all’inizio da lui posto sotto esame?

Stefano D'Orazio: No. Grazie a Dio nel gruppo non c’è mai stato alcun "supervisore", tanto meno poteva esserlo Valerio che viveva il suo ruolo di quinto Pooh con totale distacco, non per atteggiamento, ma per quel suo indescrivibile carattere che lo rendeva unico.

A&B: Come paroliere, a mio modesto avviso, tu sei stato e sei altrettanto efficace. Il primo testo che hai scritto è stato quello di “Eleonora, mia madre”, nel 1975 e, considerati i contenuti, si può senz’altro dire che si sia trattato di un “esordio” con il botto. Non serve citare altri tuoi testi, ritenuti oggettivamente magistrali. Vorrei sapere se il tuo apporto come co-paroliere fu naturale o se dovesti importi in qualche modo al resto del gruppo.

Stefano D'Orazio: Fu Lucariello, il nostro storico ed unico produttore, che nel ’75 mi chiese di provare a scrivere un testo su una musica abbastanza inconsueta di Facchinetti. Era un brano con un inserto valzer che mi evocava qualcosa di “antico” e intorno a quella musica allestii la storia di una ragazza madre che per tirare su da sola il figlio, si trova a dover rinunciare a tutta la sua vita. Ed è proprio l’adolescente ragazzo, che spiando la donna alle prese con il baule dei suoi ricordi, si rende conto di quanta nostalgia e quanta vita non vissuta abbia accompagnato l’esistenza di sua madre. Fu un difficile banco di prova, ma mi sdoganò come “autore” per gli anni successivi.

A&B: Ti sei mai rivolto a Valerio per un consiglio sia come paroliere, sia come batterista?

Stefano D'Orazio: Come batterista no, ma come autore certamente sì, specie agli inizi, dove la tecnica non mi assisteva e l’esperienza di Valerio faceva la differenza. Con l’andare del tempo raggiungemmo però una complicità, anche letteraria, e puntualmente confrontavamo i nostri testi suggerendoci dei “miglioramenti”. Succedeva che c’erano delle musiche che, o all’uno, o all’altro, non riuscivano a creare ispirazioni ed allora ci “spartivamo” il lavoro a seconda degli entusiasmi che le musiche ci procuravano. Quasi mai abbiamo messo storie su melodie che non ci accendevano idee e laddove a uno non piacesse un brano, c’era sempre l’altro che lo abbracciava con entusiasmo.

A&B: Valerio vanta il sodalizio di maggior successo con Roby. Con chi degli altri tre Pooh, a livello compositivo, Stefano D’Orazio sente un più stretto legame e perché?

Stefano D'Orazio: Ho scritto fortunatamente dei successi sia con Roby, sia con Dodi o Red: le loro diversità compositive sono sempre state uno stimolo sia per me, sia per Valerio. Con Red sono stato una sorta di biografo dei suoi cambiamenti di vita, con Dodi ho sperimentato dei bei percorsi di fantasia e di retaggi letterari, mentre con Roby mi sono lasciato coinvolgere dal fascino delle sue melodie che pretendevano storie di cuore.

A&B: Nel 2003 il tuo primo incontro con il teatro musicale, per il quale firmi i testi e le liriche di "Pinocchio – Il grande musical" con le musiche dei Pooh.

Stefano D'Orazio: La voglia di Musical arriva da lontano, da quando intorno agli anni ’70, durante le nostre tournée americane, avevamo scoperto il fascino del teatro musicale. Di solito i nostri concerti si svolgevano i venerdì, i sabato e le domeniche e il resto della settimana ci parcheggiavamo a N.Y. che di certo era la città più viva e stimolante che avessimo mai conosciuto. A Broadway, i teatri erano monopolizzati dai Musical - grandi titoli e grandi produzioni - e io mi infilavo ogni giorno in quei mondi fantastici giurandomi ogni volta che un giorno anch’io avrei realizzato un musical. E quel giorno in qualche modo arrivò.
Raffaele Paganini, ètoile del Teatro dell’Opera di Roma, del London Festival Ballet, della Scala di Milano, dell’Opera di Zurigo e chissà di cos’altro, ma soprattutto uno dei miei storici compagni di merende, tra uno Zorba e una Coppelia era approdato al Musical. Saverio Marconi, il pioniere e scopritore di questo genere per l’Italia, lo aveva scritturato come protagonista in “Sette spose per sette fratelli”. Per l’occasione, aveva anche imparato a cantare ed ebbe un successo clamoroso.
Un giorno mi telefona e mi dice che Marconi ha voglia di parlare con me per sottopormi un'idea.
Incontrai Saverio a Roma, in un bar accanto al Teatro Brancaccio: capelli brizzolati, maglione bianco e sciarpa rossa buttata intorno al collo come solo i registi veri sanno fare. Mi disse che aveva avuto l’idea di mettere su un musical che avesse per colonna sonora i grandi successi dei Pooh. Bisognava però imbastire una narrazione che potesse dare un filo logico agli eventi raccontati dalle canzoni. La proposta mi intrigò e gli dissi che ci avrei provato.
Nel repertorio dei Pooh c’era una canzone per ogni esigenza: in ormai 35 anni di musica avevamo attraversato tutto lo scibile umano, dall’amore all’amaro compreso il caffè e il dolce, e così non mi fu difficile scrivere una storia fitta di “Pensieri”, “Tante voglie di lei”, “Donne degli amici”, “Notti a sorpresa” e “Uomini soli” fino agli inevitabili “Amici per sempre”, che ne divenne il titolo.
Consegnai il copione a Marconi e a quel punto decisi di parlarne con i Pooh. Tra un “che bello, che bello”, una faccia storta ed un “boohh”, decidemmo di prendere un appuntamento con il Regista. Nel frattempo Saverio venne a sapere che a Londra stavano allestendo un musical che cavalcava praticamente la stessa formula del nostro “Amici per sempre” e il filo conduttore della storia erano le musiche degli Abba: si trattava di “Mamma Mia!”
Che sfiga, non possiamo arrivare secondi, sarebbe come dire che abbiamo copiato l’idea agli inglesi, meglio lasciare stare. Peccato!
Però Marconi difficilmente si arrende, e così l’appuntamento che avevamo preso per sviluppare l’ipotesi “Amici per sempre”, divenne invece un incontro di intenti.
Bisognava trovare una storia forte, popolare, infilarci delle musiche inedite di quelle che spaccano, fare insomma il primo vero musical Italiano a livello Broadway.
Una raffica di sogni che però raccontati da Saverio con l’enfasi e il carisma che l’uomo si ritrova, riuscirono a contagiarci e così ci salutammo al grido: “Dai! Proviamoci!”

Passarono un po’ di mesi ed ogni tanto Marconi mi telefonava della serie: “Novità?” chiedendomi se ci fossero novità: vuoi per le mille cose che ci occupavano, vuoi perché effettivamente il lampo non arrivava, tutto era fermo ai box.
Un giorno, Roby ebbe l’illuminazione: Pinocchio! Era lui l’eroe che stavamo cercando: popolare, intrigante e antico quanto basta per ringiovanirlo ed arricchirlo di sentimenti. Tra un “che bello che bello”, una faccia storta ed un “boohh”, ne riparlammo a Saverio che saltò sulla sedia: Pinocchio è il libro più letto al mondo dopo la Bibbia e il Corano, una storia italiana, con musiche italiane, realizzato in Italia da una Compagnia ed un Cast tutto italiano. Insomma: Perfetto! E che Pinocchio sia!
Nei due anni successivi, quel pezzo di legno fu in cima ai nostri pensieri. Stesure di brani, testi, copioni, cambiamenti, idee di scene e poi tutto da capo. Marconi non era mai contento. Pinocchio era diventato il suo giocattolo, lo smontava e lo rimontava, ogni volta diverso come un Transformer. Il nostro Pinocchio si sarebbe ambientato negli anni ’60: Geppetto non doveva più essere il povero e disperato falegname che il libro raccontava, ma una sorta di Aiazzone con tanto di fabbrichetta e dipendenti, un single impenitente con storie irrisolte e velleitarie voglie di paternità. Ci sarebbe stato spazio per una storia d’amore e per questo era apparsa Angela, eterna fidanzata di Geppetto ed alla fine mamma di Pinocchio, e Lucignolo sarebbe stato l’amico del cuore del nostro burattino. La storia prese forma giorno dopo giorno e ci fu spazio per canzoni di grande sentimento.
Dopo due anni, Pinocchio era pronto, scene e costumi, musiche e libretto: mancava soltanto il cast ed un teatro in grado di contenere l’esagerazione che avevamo messo insieme. Nessuna struttura sarebbe stata in grado di ospitare il nostro Pinocchio che, con le sue 15 scene alte fino ad undici metri, school bus, pedane idrauliche e quant’altro, rischiava di dover essere ridimensionato ancora prima di nascere.
Marconi e Renzullo, i due inventori della Compagnia della Rancia, presero contatti con i Cabassi, proprietari del Forum di Assago e gli promisero di tenere Pinocchio in scena a Milano per un anno se gli avessero costruito un teatro su misura dove farlo debuttare. A conti fatti, l’idea piacque. In tempo reale iniziarono gli sbancamenti a fianco del Forum per fare spazio a quello che sarebbe diventato “Il Teatro della Luna” e contemporaneamente vennero indette le audizioni per comporre il cast del Grande Musical.
I provini avvennero al Teatro Nuovo di Milano e si presentarono circa 800 candidati. Dopo una settimana di selezioni e callback, avevamo il nostro cast.
Mentre a Milano i lavori per realizzare il Teatro della Luna andavano avanti spediti, a Tolentino nel Teatro Vaccaj, iniziarono le prove. Tutti i 30 attori del cast furono tenuti per l’intera estate del 2002 in una full immersion a base di Pinocchio non stop. Fabrizio Angelini inventava e provava balletti, acrobazie e numeri, Giovanni Maria Lori metteva tutti sotto torchio con cori e canzoni e contemporaneamente in un’altra parte del Teatro, Saverio interpretava uno alla volta tutti i ruoli così come voleva che venissero recitati. Praticamente eravamo nella fabbrica del musical: macchinisti, attrezzisti, sarte e tecnici dovevano far girare 320 costumi, 15 scene complicatissime, più di 800 proiettori ed un impianto audio da spavento. Insomma, stavamo costruendo una macchina da guerra che non poteva non funzionare.
Il debutto fu fissato per il 14 marzo 2003 al Teatro della Luna.
Alla mattina della Prima, stavano ancora incollando la moquette della galleria e fissando le poltrone in platea; la commissione di sicurezza alle 6 del pomeriggio finalmente firmò l’agibilità. Alle sette di sera, come per miracolo, il Teatro della Luna era una realtà che faceva spettacolo ancora prima di alzare il sipario. I grandi alberi che si stagliavano sul palcoscenico, le proiezioni che evocavano boschi e cieli illuminavano il soffitto a volta e, complice un sottofondo di cinguettii, si cadeva in clima da favola appena messo piede in sala. Alle otto aprirono le porte e c’era il mondo: giornalisti, vip, politici, colleghi, amici e nemici e Pinocchio andò in scena.
Saverio, che non vuole mai assistere alla prime dei suoi spettacoli, era fuori che fumava passeggiando nervosamente ed io gli facevo compagnia incrociando le dita. Ogni tanto rientravo in sala per sentire le reazioni del pubblico, ma non reggevo lo stress, avevo il terrore che da un momento all’altro tutto il nostro lavoro potesse andare a pallino, perché basta davvero poco per rovinare uno spettacolo: un microfono che si spegne, una scena che si incastra, un attore che si dimentica la parte, un coro stonato, insomma, tutto quello che se succede alla centesima replica è considerato un incidente, se succede ad una Prima, è una tragedia.
Ma fu un successo e da quella sera l’avventura di quel Pinocchio è storia: 460 repliche, più di 500.000 spettatori e un tour in Corea fino ad approdare nel 2010 a Broadway. Un giocattolo portato avanti con l’incoscienza di chi antepone la passione alla logica, un giocattolo che non avrebbe mai potuto esistere se ci fossimo fermati a fare due conti.


I Pooh con il cast del musical "Pinocchio"

A&B: E' da questa esperienza che nasce la tua grande passione per il musical?
Stefano D'Orazio: Saverio mi ha inconsapevolmente insegnato come si fa un musical e mi ha contagiato una passione che non mi ha più abbandonato: vedere materializzarsi una storia che hai solo fantasticato. Sedersi a guardare come prende forma nelle mani di chi ci mette del suo è un’emozione impagabile e dalla sera di quella Prima, non mi sono più ripreso, tanto che quella notte mi promisi che da grande avrei fatto il “Musicalaro”. Infatti, all’indomani della mia sortita dai Pooh nel 2009, mi trovai quasi involontariamente a scrivere Aladin e da lì è iniziato il secondo tempo della mia vita.

A&B: Dopo il successo di Aladin, gli ABBA ti hanno chiamato per scrivere i testi in italiano di “Mamma Mia”.

Stefano D'Orazio: Sicuramente una scelta spericolata, ma al contempo estremamente stimolante. Ai miei collaboratori la cosa sembrava totalmente da escludere: “Gli Abba? Sono un monumento al pop, non si possono toccare”. Ma il fatto che gli Abba avessero scelto me per un lavoro così importante e delicato, mi riempiva di sana euforia. Far “parlare” in italiano le canzoni che erano state un cartello della mia adolescenza musicale, era davvero da considerarsi un grande privilegio così ho deciso di buttarmi e il 30 agosto ho consegnato il tutto e mi sono cacciato a Milano al Teatro Nazionale per le prove del colosso Inglese. il 24 settembre 2011 “Mamma Mia!”, in una prima hollywoodiana, debutta alla grande. E’ un successo grosso. Un mio amico giornalista, alla fine dello spettacolo, mi fa: “Ma come t’è venuto di tradurre gli Abba? La gente ha nella testa le versioni originali, non perdona i cambiamenti….. ma tu hai un culo che metà basta. …. Complimenti!
Forse è stata la più azzeccata considerazione che si potesse fare. Chiaramente i complimenti erano per il mio culo, non per le liriche.

A&B: Il tuo lavoro nella scrittura di musical prosegue con grande successo: nel 2012 è la volta di “W Zorro”...

Stefano D'Orazio: “W Zorro” è nato sull’onda dei ricordi della mia infanzia, quando a carnevale indossavo il costume del mitico eroe e agitavo la mia spada di plastica in difesa di chissà chi. Le storie di Zorro mi erano rimaste impresse, sfocate dal tempo, ma improvvisamente vive e mi era venuta la voglia di inventare intorno a quella maschera un mondo fatto di imprevisti, matasse da sbrogliare, cattivi da combattere, ma anche di dubbi e paure: volevo un mio Zorro capace di piangere, ridere, amare, che somigliasse il più possibile ad un uomo.
E Zorro ha cominciato a muoversi tra i tasti del mio computer, come sempre accade ai miei personaggi, decidendo da solo dove andare e cosa fare, rispondendo a tono agli altri protagonisti che, a loro volta, si muovevano nella storia diventando simpatici o antipatici, buoni o cattivi, a loro insindacabile giudizio: io dovevo soltanto raccogliere le loro mosse, lasciandoli pascolare tra le mie fantasie, permettendogli di meravigliarmi.
Ne è venuta fuori una storia articolata, tenera e divertente dove Roby Facchinetti ha infilato una colonna sonora degna dei suoi momenti migliori. Le musiche raccontano grandi emozioni e, quando durante i provini per la scelta del cast, ho sentito cantare alcuni momenti del musical, mi sono commosso fino a vergognarmi.

A&B: E poi, nel 2014, “Cercasi Cenerentola”, con Paolo Ruffini e Manuel Frattini.

Stefano D'Orazio: Con “Cenerentola”, invece, è stato Saverio Marconi a darmi l’input e io l’ho portato avanti alla mia maniera, cercando di infilare ironia e paradossi nell’immobile favola della scarpetta di vetro. Paolino Ruffini e Manuel Frattini, sono poi stati i meravigliosi protagonisti di una storia decisamente fuori dai canoni e il connubio dei due ha acceso la scintilla di un successo tanto forte quanto inaspettato. Anche lì abbiano rischiato di proporre qualcosa di improbabile, ma più passa il tempo e più mi vado convincendo che la fortuna passa sempre da percorsi diversi e bisogna avere il coraggio di cambiare strada se si vuole sperare di incontrarla.


Dody Battaglia, Roberto Ciufoli, Roby Facchinetti, Manuel Frattini e Stefano D'Orazio pronti per "Aladin"

 

A&B: Scrivere musical è il futuro di Stefano D'Orazio?

Stefano D'Orazio: Non so se scrivere nuovi musical sia il mio futuro, per ora è sicuramente la cosa che mi stimola di più. Ma non è detto che insisterò: ho scoperto la libidine dei cambiamenti e prima del fischio finale, voglio vedere se mi potrà capitare di appassionarmi a qualche altro gioco: magari prendere finalmente quella laurea in giurisprudenza che avevo promesso a papà o risalire su un palcoscenico a raccontare, a chi ne avrà voglia, le mie nuove stonature.

A&B: Quali sono le principali differenze tra la scrittura di un pezzo musicale e il testo di un musical?

Stefano D'Orazio: La canzone ha dei confini molto delineati. In poco più di quattro minuti bisogna raccontare un prima, un durante e un dopo: praticamente si deve tentare di far stare una balena in una scatola di sardine, e qualche volte ci si riesce.
Raccontare una storia in un musical, invece, è molto più intrigante. I personaggi che vai inventando sono diversi, ognuno con un differente carattere ed ognuno con un proprio linguaggio e questo ti consente di spaziare con la fantasia lì dove la “canzone” non te lo permetterebbe. Direi che scrivere una canzone è un esercizio dove l’ispirazione gioca un ruolo determinante, mentre il testo di un musical ti cresce sotto gli occhi in maniera inaspettata e del tutto indipendente dall’ispirazione iniziale.

A&B: A fine novembre 2012 è uscita in libreria la tua singolare autobiografia "Confesso che ho stonato", pubblicata da Feltrinelli (7). Credi che il successo del libro sia dovuto proprio a questo tuo modo di non prenderti mai sul serio e di aver voluto raccontare principalmente le "stonature", gli "inciampi" ed i "capitomboli" della tua vita?

Stefano D'Orazio:
Sai, l’autocelebrazione non è stata mai il mio forte. Mi è sempre piaciuto trovare il lato dissacrante e, perché no?, comico della mia vita e quando affronti il tempo con questo spirito, ci sta che i capitomboli e gli inciampi siano all’ordine del giorno. Nel mio libro non ho fatto altro che raccontare le cose che mi sono accadute cercando di scegliere le meno ufficiali, una sorta di Back-stage della mia vita. Ne è venuta fuori una biografia “autosputtanante”, una confessione che un qualunque manager avrebbe sconsigliato al proprio artista di pubblicare, ma io di manager non ne ho e quindi sono autorizzato a fare di testa mia.

A&B: Dopo aver parlato del batterista, del paroliere, dell'autore di musical e scrittore, giungiamo ora al cantante. Parlando di novità all’interno del gruppo, tua è la proposta di far cantare ad ogni membro, in ogni disco, almeno un pezzo (oppure insieme, nello stesso brano, ma a turno). Come ci sei riuscito?

Stefano D'Orazio:
Probabilmente in un certo momento della nostra storia abbiamo sentito l’esigenza di raccontarci in prima persona ed è lì che sono cominciati ad apparire brani collettivi dove ognuno di noi cantava un qualcosa che lo riguardava, magari sviluppando sullo stesso argomento diversi punti di vista, come del resto erano e sono sempre state le nostre idee nei confronti di tutto.
Credo sia stato un buon modo per di rappresentare la differenza delle molteplici visioni che accompagnano il nostro quotidiano e per “nostro” non intendo quello di noi Pooh, ma quello di tutti.

A&B: Nel 1980, pubblicaste il primo (e unico) album in inglese “Hurricane”. Sempre in qualità di paroliere dei Pooh, vorrei un tuo commento riguardo al pesante rimaneggiamento effettuato da Teddy Randazzo nei confronti dei testi, da lui molto semplificati, forse anche in maniera fin troppo imbarazzante.

Stefano D'Orazio:
La produzione di quel disco, che doveva uscire solo all’estero, aveva come scopo, a detta dei discografici di turno, quello di sdoganarci presso il pubblico americano che ci raccontavano essere estremamente impreparato ad assimilare testi con contenuti “troppo intellettuali”. Francamente, nessuno ci aveva mai detto, in Italia, che le nostre liriche fossero “intellettuali”, ma forse non ce ne rendevamo conto. Fatto sta che Randazzo, a cui era stata affidata la produzione del disco, scelse di stravolgere i contenuti dei nostri brani a favore di una più immediata comprensione. Ne venne fuori un album che non ci rappresentava, né nelle sonorità, né tanto meno nei contenuti e gli americani, giustamente, ci ignorarono. Involontariamente, quel lavoro andò in classifica in Germania e in Giappone, dove probabilmente, non conoscendo né l’inglese, né l’italiano si fecero piacere quelle melodie semplificate. Peccato che l’album rientrò anche in Italia prima d’importazione e poi ufficialmente. Ne avremmo fatto volentieri a meno.

A&B: Rimanendo su quell’album, il brano “Love Attack” vi vide impegnati per la prima volta con la Disco. Quanto c’è di voi in quel pezzo?

Stefano D'Orazio:
Direi molto poco.



A&B
: Per tutti gli anni '70, fino ad '80 inoltrati, diversi gruppi o artisti italiani si misurarono come voi con la lingua inglese: Banco, Orme, New Trolls, finanche un campione di incassi nazionale come Lucio Battisti. Tutti fallirono. L’unico gruppo che riuscì ad ottenere successo in un paese anglofono fu la Premiata Forneria Marconi (che arrivò a superare in classifica Supertramp ed Eagles, ancorché prima di “Breakfast in America” e “Hotel California”). Come te lo spieghi?

Stefano D'Orazio:
Credo che i ragazzi della PFM avessero messo in inglese il meglio della loro produzione di allora, rispettando i suoni e le liriche, e questo li fece risultare credibili.
Inoltre, il loro genere musicale era molto vicino al rock anglosassone e questo li rese meno ostici a quel pubblico, fortemente nazionalista in fatto di musica, come erano gli americani di allora.

A&B: Tra il 2009 e il 2015, anni della tua fuoriuscita dal gruppo, come hai guardato ai Pooh? Con rimpianto o nostalgia, distacco o rimorso per la scelta fatta?

Stefano D'Orazio:
Con nessuno di questi sentimenti. La mia fu una scelta ponderata e condivisa.
L’idea di scendere da quel palco era stata maturata come conseguenza del mio bisogno di vedere cos’altro potesse esserci nella mia vita al di la dei Pooh e quando, una volta fuori, ho avuto modo di confrontarmi con le mie nuove voglie, mi veniva spontaneo guardare ai miei ex colleghi con infinita ammirazione. Forse più che mai, una volta uscito dal gruppo, mi sono reso conto di quanto i Pooh fossero stati e fossero ancora forti e inarrivabili.
Non a caso, la mia prima produzione teatrale, il Musical “Aladin”, è stato musicato dai miei amici per sempre, quasi a non voler interrompere un cordone ombelicale che dura ormai da 50 anni.

A&B: Questa è l’unica domanda, tra tutte quelle che ti ho posto, che ho rivolto anche a Red (l'intervista completa a Red Canzian qui) ed è l’unica che rivolgerei anche Roby e Dodi, se ne avessi l’opportunità. I Pooh hanno cantato "Storie di tutti i giorni" (dalla discografia di Riccardo Fogli) in una recente ospitata televisiva ma hanno escluso lo stesso brano dalla tracklist dei concerti e dell'ultimo disco live. Per quale motivo? L'esecuzione di questo pezzo - peraltro, non meno popolare di storiche hit dei Pooh e con un sound molto vicino a quello del gruppo - non avrebbe assunto la forma di un doveroso atto di rispetto nei confronti di Riccardo?

Stefano D'Orazio:
Questo argomento è stato motivo di molte riunioni, l’idea di inserire alcuni brani di Riccardo nel repertorio della Reunion sembrava a tutti una buona cosa - e non sto parlando soltanto di “Storie di tutti i giorni” ma anche di “Mondo” e di “Che ne sai” - ma alla fine, confrontandoci con i nostri collaboratori, ci venne fatto notare che la filosofia del cinquantennale doveva riguardare esclusivamente le canzoni fatte con i Pooh. Infatti, anche i singoli importanti fatti dagli altri fuori dal gruppo non sono stati inseriti in scaletta.
C’è da dire che 50 anni di successi regalano poco spazio ai repertori personali ed infatti abbiamo riscontrata non poca fatica a scegliere le canzoni elette a rappresentarci in questo ultimo viaggio.

A&B: Chiudo sempre con Riccardo: nel volume "Pooh. La grande storia 1966-2006", riferisci che, quando se ne andò dal gruppo, tu provasti a convincerlo a restare, con esiti poi noti. Vorrei, se me lo consenti, che descrivessi il Riccardo di allora e quello di oggi.

Stefano D'Orazio:
Eravamo molto giovani e prendevamo tutto molto sul serio, regole ed insofferenze.
Riccardo stava vivendo un momento bellissimo pieno di stimoli e novità, si era innamorato come solo a vent’anni si è capaci di fare e, chiaramente, molte delle sue attenzioni erano indirizzate verso la sua storia. Pur non togliendo nulla al nostro fare, di certo per la prima volta avvertimmo che non avevamo più l’esclusiva dei suoi entusiasmi che fino a quel momento ognuno di noi riversava totalmente nella band: tutto il resto arrivava dopo mentre Riccardo si accorse che il privato aveva diritto di essere vissuto. Noi non eravamo preparati ad accettare questo concetto convinti che donne e amori fossero da tenere fuori dal nostro lavoro - e considera che le esperienze di altri gruppi, Beatles in primis, avvaloravano le nostre regole - ma Nicoletta [Strambelli, ovvero Patty Pravo - n.d.R.] era un personaggio troppo ingombrante per essere tenuto fuori dai giochi e questo ruppe gli equilibri dei nostri rapporti. Non adottammo nessuna tolleranza e Riccardo si sentì isolato e forse anche tradito e andò per la sua strada. Il resto è storia.
Oggi è tutto diverso: siamo fortunatamente cresciuti e la consapevolezza dei nostri reciproci itinerari fortunati, ci dà la certezza che esserci ritrovati sullo stesso palco non è un caso, ma l’inevitabile conseguenza di una storia scritta a dieci mani e Riccardo, in tutto questo, è di certo il protagonista vincente di questa nostra Reunion.



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NOTE

(1) Farida, nome d'arte di Concetta Gangi, era originaria di Catania, figlia di padre italiano e madre egiziana. Dopo aver partecipato a vari concorsi canori, con lo pseudonimo di Ketty Gangi, ebbe una prima risonanza nel 1966, al Festival degli sconosciuti di Ariccia (manifestazione curata da Teddy Reno e Rita Pavone). Qui si impose all'attenzione dei discografici per l'energia interpretativa e le non comuni doti vocali che, successivamente, la faranno accostare ad interpreti quali Demetrio Stratos e Giuni Russo. Incise un primo disco nel 1968, “Supergiù Superman", lato B di un 45 giri curato da Ruggero Cini per la colonna sonora del film "I magnifici tre supermen a Tokyo". Nello stesso anno, ottenne il primo significativo successo con il brano "Io per lui", uscito a nome Farida.
Dopo aver esordito al Piper Club di Roma, ove interpretava brani nazionali (Luigi Tenco) e stranieri (Janis Joplin), approdò al Cantagiro del 1970 con il brano "Pensami stasera", ove fu notata dal cantautore polacco Czesław Niemen che la rende popolare nei paesi dell'Europa orientale. Nel 1979, in Italia, entra nella compagine di Renato Zero, partecipando allo spettacolo "Erozero" con il ruolo della "Donna", sorta di "dea-madre" che richiama il protagonista all'autenticità dei valori di fronte al caos della modernità.
Prodotta da Zero, nel 1981 pubblica il Q Disc “Complicità", mentre poco si interessa di lei Franco Battiato apparendo nel 45 giri “Rodolfo Valentino”/“Oceano Indiano”. Verso la metà degli anni '80 si sposa e diventa madre, ritirandosi a vita privata.
Torna in sala d'incisione nel 1995 e nel 2005 realizzando gli album "Di amore in amore" e "Decisamente complici", tornando ad esibirsi dal vivo.

(2) Osanna, Trip e Metamorfosi sono esponenti blasonati della scena progressiva italiana, collocati immediatamente dopo i 4 grandi del prog italico (Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, New Trolls).
Gli Osanna si formano a Napoli, agli inizi degli anni settanta dall'unione del gruppo Città Frontale con il fiatista Elio D'Anna. Tra i primi in Italia ad esibirsi dal vivo con trucco e costumi di scena, fondevano rock progressivo, musica tradizionale, sperimentazione, teatralità e commedia dell'arte. Dopo aver pubblicato cinque album seminali per il rock progressivo ("L'uomo", 1971, di stampo hard rock; "Preludio, Tema, Variazioni e Canzona", 1972, con un'orchestra diretta dal Maestro Luis Bacalov; "Palepoli", 1973, indirizzato alla tradizione partenopea, ma sempre con un piede nel progressive; "Landscape of Life", 1974, di grande influenza inglese; "Suddance", 1978, che anticipa la formula tipica del primo Pino Daniele), tornano in attività nel 1999 e da allora, continuano ad esibirsi dal vivo, seppur con l'ausilio di diversi nuovi membri (tra i quali David Jackson, dei Van Der Graaf Generator). Per maggiori approfondimenti su questa band, consiglio la lettura del seguente articolo a firma di chi scrive: "Osanna - Facimmo 'o Prog".
Gli anglo-italiani The Trip si formano sul finire degli anni '60 grazie alla volontà dell'ex Camaleonte Riki Maiocchi che costituisce la band nel 1966 reclutando il batterista Ian Broad (già frequentato a Milano quando faceva parte del complesso The Bigs), il bassista Arvid "Wegg" Andersen, i chitarristi Billy Gray (che aveva suonato con Eric Clapton e proveniva dagli scozzesi Anteeeks) e addirittura Ritchie Blackmore, poi noto nei Deep Purple e nei Rainbow. Giunti in Italia nel 1968, soffrono l'abbandono di Blackmore (che torna in Inghilterra per dare vita ai Deep Purple) e dello stesso Maiocchi. Si unisce pertanto il virtuoso tastierista savonese Joe Vescovi che infonde al gruppo uno stile beat, rock e blues con qualche venatura sinfonica, che i critici battezzano "musica impressionistica". Grazie a un provino effettuato al Piper Club di Roma, la band viene notata dal produttore Alberigo Crocetta che mette il quartetto sotto contratto per la RCA, facendo anche inserire un suo brano nella compilation intitolata Piper 2000. Pubblicano ben quattro album negli anni '70 (“The Trip”, “Caronte”, “Atlantide”, “Time of change”) ricostituendosi, per la gioia dei fans di rock progressivo, anche in tempi recenti.
I Metamorfosi nascono nel 1970 per volontà del tastierista romano Enrico Olivieri e del cantante siciliano Davide "Jimmy" Spitaleri che, peraltro, vanta anche una breve militanza ne Le Orme più recenti. Autori, nel 1972, di un primo album intitolato “...E fu il sesto giorno”, di stampo tipicamente tardo-beat, compiono la svolta progressive con “Inferno”, dell’anno successivo, molto apprezzato dai cultori dello specifico genere e, dopo la partecipazione a "Festival della Musica Popolare", si sciolgono prematuramente, complice anche il fallimento della loro casa discografica. Negli anni '90, il duo torna assieme con una nuova sezione ritmica, riuscendo a pubblicare il terzo album nel 2004, “Paradiso”, naturale seguito del precedente album. “Purgatorio”, che completa la trilogia, viene pubblicato nel 2014.
Di diversa estrazione musicale, invece, i Rokketti, che nascono nel 1958 a Civitavecchia, per iniziativa dei due fratelli Mario e Santino Rocchetti, il cui cognome determina la scelta del nome della band. Di chiara derivazione rhythm and blues (nonché beat e rock, anche se in maniera contenuta) arrivano ad esibirsi all’estero, in Svezia e, soprattutto, in Germania, ove incrociano la strada addirittura con i Beatles. Si sciolgono nel 1968 dopo aver inciso un ultimo 45 giri totalmente dedito al genere Rhythm and blues. Successivamente, due membri entrano nel gruppo di Nino Ferrer mentre Alberto Rocchetti, terzo e più giovane fratello dei due fondatori, anch'egli in organico nel periodo finale, dà vita al gruppo progressivo “La Seconda Genesi”, entrando poi negli Champagne Molotov di Enrico Ruggeri e nella backing band di Vasco Rossi.

(3) Rivista settimanale romana edita negli anni settanta e ottanta di cultura musicale, Ciao 2001 nacque nel 1968 dalla fusione delle testate “Ciao amici” e “Big”.
Inizialmente chiamata “Ciao Big”, dal 1969 cambiò nome adottando quello con cui poi divenne famosa, mantenendolo fino al 2000, anno di sua ultima pubblicazione.
Nei suoi primi tre anni di vita si occupò di musica leggera, non soltanto italiana, con particolare riferimento alle nuove tendenze e ai fermenti giovanili del periodo. Successivamente, l’attenzione si spostò anche verso il rock progressivo straniero e italiano (all’epoca noto come “pop”).
Insieme a trasmissioni radiofoniche come “Per voi giovani” di Renzo Arbore, Ciao 2001 fu uno dei mezzi principali attraverso cui il rock, in particolare il prog, si diffusero nella Penisola.
La rivista vantava la collaborazione di firme di personaggi assai autorevoli (oppure divenuti tali in tempi successivi), come Dario Salvatori (critico musicale e conduttore radiofonico molto noto in televisione, oggi anche responsabile artistico del patrimonio sonoro della Rai), Richard Benson (storico conduttore e chitarrista heavy metal, già con il gruppo prog “Buon Vecchio Charlie” agli inizi degli anni ‘70), Enzo Caffarelli (Il brano “Penna a sfera” di Antonello Venditti parla proprio di lui), Armando Gallo (noto fotografo di artisti rock stranieri, tra cui i Genesis).

(4) Il Festival pop di Caracalla si svolse ad ingresso gratuito nelle terme di Caracalla di Roma dal 10 all'11 ottobre 1970. Gli artefici dell'evento furono Pino Tuccimei (direttore artistico), Giovanni Cipriani (organizzatore), Luigi Raimondi (collaboratore) e Eddie Ponti (presentatore). Trasmesso in diretta radiofonica per Radio Monte Carlo da Mario Luzzatto Fegiz e Paolo Giaccio (alcune riprese cinematografiche furono utilizzate per il film “Terzo Canale - Avventura a Montecarlo”, interpretato dai The Trip, che nel finale del film eseguono, tra le rovine di Caracalla, il brano “Fantasia”) vide la partecipazione di New Trolls, Primitives, Sopwith Camel, Pooh, Four Kents, The Trip, Le Esperienze (Francesco Di Giacomo, Pierluigi Calderoni, Renato D'Angelo e Nicola Agrimi), i Fiori di Campo, i Fholks, Pino Morabito e il cast di "Hair" (tra cui Renato Zero, Loredana Bertè, Ronnie Jones, Teo Teocoli e Penny Brown). Nella seconda edizione, che si svolse sempre nelle terme di Caracalla di Roma dal 6 al 7 maggio 1971 (con il biglietto di ingresso a trecento lire), parteciparono Panna Fredda, Le Esperienze, Fiori di Campo, Il Ritratto di Dorian Gray, Il Punto, Free Love, Lucio Dalla, Four Kents, Blue Note, Free Love, Osanna e Brainticket.

(5) Il Festival pop Villa Pamphili si svolse nella villa Pamphili di Roma per due edizioni, all'inizio degli anni settanta.
La prima edizione si tenne nel 1972, all'interno del parco romano tra il 25 e il 27 maggio. Gli spettatori furono almeno centomila (fonte Fabrizio Zampa de Il Messaggero). Fu oggetto di aspre polemiche (soprattutto da parte dell'Osservatore Romano che definì il pubblico «agglomerato di ambigue carovane di ragazzi e ragazze») e di diversi cittadini esasperati dal traffico e dal rumore. Questi i partecipanti: Van Der Graaf Generator, Hawkwind, Hookfoot, Banco del Mutuo Soccorso, The Trip, Toad, Osanna, Garybaldi, Quella Vecchia Locanda, Fholks, Il Punto, Blue Morning, Aum Kaivalya, Richard Benson, Raccomandata Ricevuta di Ritorno, Cammello Buck, Osage Tribe, Semiramis.
Alla seconda edizione, sempre nella stessa location, nel 1974, parteciparono: Amazing Blondel, Soft Machine, Stomu Yamashta, Il Volo, Perigeo, Alberomotore, Biglietto per l'Inferno, Stradaperta, Quella Vecchia Locanda, Kaleidon, Richard Benson, Joule ed i Bauhaus.

(6) L'album contiene due colonne sonore: “In nome del popolo italiano” sul lato A (con arrangiamenti orchestrali), e “Ettore Lo Fusto” sul lato B. Di fatto, Il Punto suona soltanto nei quattro brani strumentali del primo lato, uno dei quali con un'orchestra.
Il gruppo non va confuso con i Punto 2, un duo napoletano che ha realizzato un album molto leggero intitolato “Odore di capra”, nel 1976.

(7) Pubblicato nel Novembre 2012 per i tipi di Kowalski, "Confesso che ho stonato" ha riscontrato fin da subito un successo inaspettato, tanto che in appena due mesi aveva già raggiunto la seconda ristampa. Il volume era corredato della seguente presentazione a firma dell'autore: “Mi viene in mente che una volta il regista Saverio Marconi mi disse: ‘Vedi Stefano, è importante avere una bella storia da raccontare, ma ogni storia ha un’anima e se non si riesce a tirare fuori quell’anima la storia non vale niente’. Chissà se questa mia storia ha un’anima o se mai gliene spunterà una, ma ammettere di aver stonato mi sembra una bella partenza.” C’è molto di Stefano D’Orazio in questa frase. C’è l’autoironia, la sensibilità, la curiosità che lo ha portato a cambi di vita repentini. E c’è anche l’essenza più profonda di questo libro che sarebbe riduttivo definire una semplice autobiografia. Certo, c’è la vita di Stefano e l’incontro che ha segnato la sua di vita e la vita di milioni di fan. C’è la musica – tanta musica – e la creazione di una delle più famose band degli ultimi cinquant’anni, i Pooh. C’è la loro storia ma raccontata in modo unico. Perché raccontata da uno dei protagonisti e perché raccontata per stonature, per inciampi, per imperfezioni che “forse sono la parte più emozionante di ogni vita”. Feltrinelli ha così recensito la fatica editoriale: "Ne esce un racconto divertente, ironico, intelligente, mai banale. Pubblico e privato, storia di una band culto e Storia d’Italia si intrecciano e compongono un puzzle perfetto di ricordi ed emozioni. Per scoprire che dopo il plateale abbandono dei Pooh, avvenuto nel 2009 con una lettera aperta ai fan, D’Orazio percorre nuove avventure. Questo libro è solo una di queste, ma forse è la più coraggiosa, intima e vera. Un omaggio sincero ai tantissimi fan. Idealmente potremo dividere la vita di Stefano D’Orazio in quattro segmenti segnati, ovviamente, dal gruppo musicale: prima dei Pooh, con i Pooh, oltre e dopo i Pooh. Questo libro si colloca nell’ultimo segmento che abbiamo individuato ed è la prima volta che D’Orazio indossa i panni dello scrittore. E, a giudicare dalle vendite, deve averli indossati per bene! Le biografie dei personaggi famosi piacciono, forse per una sorta di curiosità che noi “comuni mortali” abbiamo nei confronti dei vip quasi a voler scoprire la chiave del loro successo e magari farla nostra.".


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