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La migliore bugia
Francesco Caringella

Quello di Francesco Caringella è un legal thriller all’italiana che nasce in un’aula di tribunale.
Qualcuno lo ha definito il sequel del best-seller “Oltre ogni ragionevole” dubbio”.
Di certo sono due libri complementari che danno voce ad un personaggio di sicura presa sul lettore: il giudice Virginia Della Valle, che rappresenta la parte più edificante ma anche quella più difficile della giustizia.
Perché, come noto, il giudice, che è anche il presidente della giuria, è il gatekeeper, il custode del processo e, in quanto tale, ha il compito di convogliare tutte le osservazioni dei giurati in una comune corrente di pensiero che porti poi al verdetto finale, facendo attenzione però ad epurare i fatti da convinzioni, preconcetti e pregiudizi.
Ma in questo romanzo corale la giudice - con le sue certezze ma anche con le sue fragilità di donna che ha sacrificato la vita privata alla carriera e che ora si sta chiedendo seriamente  se ne sia valsa davvero la pena- non è l’unica figura di spicco.
In questo grande affresco, dipinto con l’abilità propria solo di chi padroneggia da anni la materia trattata, emergono infatti molteplici personaggi portatori di altrettanti punti di vista.
C’è una anziana donna strangolata, Gilda Orefice, i cui occhi sbarrati gridano giustizia  alla giovane pm, Elisabetta Ciraci, che non riesce a togliersi dalla mente quella immagine così raccapricciante.
Anche la giovane pm è una donna che si porta dietro una storia personale non proprio semplicissima: i contrasti con la madre che la vorrebbe diversa da com’è, la difficile accettazione del sè, il severo rispetto delle regole dettate da un estremo rigore.
Lo stesso che la porta a guardare con aberrazione e meraviglia all’imputato, Giovanni Campanaro, commercialista brillante e insospettabile, accusato di omicidio e pronto a tutto per difendersi dalle accuse infamanti agli occhi della collettività, ma, soprattutto, agli occhi increduli di Michela, la giovane moglie in attesa del loro sesto figlio, e del padre, anziano e malandato. C’è poi Ferdinando Cappolecchia, un giornalista ex sciacallo folgorato sulla via di Damasco e convertitosi al vero giornalismo di inchiesta, che avrà un ruolo tutt’altro che marginale nell’economia del romanzo.
Un romanzo che rifugge da etichette troppo rigide e che diventa anche strumento di denuncia sociale, dal momento che, tra le altre cose, si parla del dramma della solitudine, di speculazione finanziaria, società dell’apparenza, maschere pirandelliane che cadono una dopo l’altra.
A ben guardare, sotto il velame del delitto, ancora più brutale in quanto perpetrato ai danni di una vittima sola e indifesa, pullulano un mare magnum di emozioni e sensazioni che mantengono alta l’attenzione del lettore dal prologo all’epilogo, anche perché in questa storia non c’è niente di certo e il colpo di scena è sempre dietro l’angolo.
Lo sa bene un altro grande protagonista del romanzo: l’avvocato Enrico Martucci, meglio noto nell’ambiente come la Iena, <<una persona terribile ma necessaria in casi come questo>>: a lui non interessa se l’accusato sia o meno innocente, ma soltanto che lo sembri, almeno durante l’iter processuale.
Quello di Enrico Martucci è forse il personaggio più riuscito del testo, quello che paradossalmente arriva maggiormente al cuore del lettore, in quanto è sicuramente il più ricco di sfumature.
In una sua celebre poesia, “Nel cuore umano”, Giovanni Pascoli  sostiene l’impossibilità di una divisione manicheista degli uomini in buoni e cattivi, perché la nostra natura è ricca di gradazioni, e infatti, se guardiamo bene  dietro la maschera del cinico e spregiudicato principe del foro, troviamo un padre attento e pentito che, consapevole di essere giunto quasi al capolinea, farà il possibile per recuperare in extremis il difficile rapporto con la figlia, avvocato pure lei che lo affiancherà in questo processo che per lui potrebbe essere l’ultimo.
Per questo la difesa dell’imputato e la vittoria del processo diventano ancora più importanti.
L’avvocato Martucci con Campanaro si comporta come Verga con i suoi personaggi: si avvale del diritto di non giudicare.
Lascia che siano gli altri a farlo, non prima però di aver ricostruito una sua verità dei fatti, alternativa a quella della Pm ma altrettanto verosimile. Lo scopo è quello di insinuare nei giurati il tormento del ragionevole dubbio, perché, da <<acrobata sempre in bilico sul filo tremante della legge>>, sa perfettamente che, nel processo, un dilemma etico – soprattutto quando la litis aestimatio è l’ergastolo – è spesso foriero di assoluzione: in dubio pro reo è un pilastro della giurisprudenza.
Giovanni Campanaro può anche aver mentito sul suo alibi però il dubbio è: un innocente non ha mai bisogno di mentire oppure ha il dovere di farlo, per ripararsi dalla valanga di indizi casuali che stanno per travolgerlo ingiustamente? Quando gli indizi non sono puntellati dalla prova risolutiva, accusa e difesa non hanno niente di concreto e le probabilità di condannare un innocente o di lasciare libero un assassino sono sullo stesso piano. E in una situazione del genere, in un processo ad hominem e non ad rem, vince chi racconta la migliore bugia.

 


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