Il premio Nobel Bob Dylan

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Premessa

Il premio Nobel per la letteratura assegnato Bob Dylan mette in evidenza il paradigma fra la letteratura e il mondo delle liriche scritte per la forma canzone nella popular music, sviluppatasi a partire dalla seconda metà del XX Sec.
Inevitabilmente, è necessario entrare nella polemica surreale sulla natura letteraria o meno dei testi, visti da alcuni come parte indissolubile della musica e, quindi, “cosa altra", non assimilabile in alcun modo alla letteratura. Una visione restrittiva della letteratura, in cui questa si compie nel solo atto della lettura e dove il testo della canzone è visto come un tutt’uno con la musica. Ma la lirica associata a un brano musicale, comunque composta di parole anche se collegate ad una melodia, non perde la sue caratteristiche di significante all’interno di una lingua: si tratta di un formato poetico diverso da quello puramente fruito tramite lettura, che segue regole sancite a limiti esterni di durata e di modalità fruitive.

Potremmo anche dire che il confine fra parola e musica è sempre stato labile, sia con la nascita della poesia stessa nell’antichità (Poemi, Sonetti, Canzoni, Liriche e Madrigali rientrano pienamente nell’accezione poetica eppure erano testi scritti per essere associati a musica. Gli stessi poemi omerici dovrebbero essere separati dalla letteratura essendo impossibile ricostruirne le musiche originarie), sia con la dissoluzione della stessa operata dalle avanguardie storiche (dadaisti, futuristi, etc.) con la poesia sonora. Gli esempi Marinettiani o dadaisti pongono il problema di quale sia il confine entro il quale la parola è letteratura e quando questa diventi, invece, soltanto suono.
Quando la parola perde il suo ruolo di lessema e diviene significante di un'altra forma di comunicazione? Forse questo confine lo hanno travalicato Tristan Tzara o Isidore Isou, che sono ritenuti comunque poeti e letterati, non certo Bob Dylan.

La copertina di "The Freewheelin' Bob Dylan" album a dir poco epocale

Breve biografia

Robert Allen Zimmerman nasce a Duluth il 24 maggio del 1941 ma cresce a Hibbing nella contea di St. Louis, nello Stato del Minnesota. Da buon ragazzotto della grande provincia statunitense, è influenzato dalla musica trasmessa alla radio, avvicinandosi giovanissimo al rock and roll e, successivamente, al folk ascoltando un disco di Odetta nel 1958, divenendone un profondo conoscitore e un interprete sempre più conosciuto. Nel 1961 si trasferisce a New York seguendo Woody Guthrie, ricoverato al New Jersey Hospital, e prosegue la sua attività di songwriter nel fermento del Greenwich Village.

E’ del 1962 il suo primo album omonimo di canzoni folk, che passa praticamente inosservato. Tuttavia, nel maggio del 1963 pubblica “The Freewheelin' Bob Dylan”, l’album che si apre con “Blowin' in the Wind” e che contiene altri brani manifesto come “Masters of War” e “A Hard Rain's A-Gonna Fall”, scritto a cavallo della crisi dei missili di Cuba.
L’effetto è dirompente: Dylan scatena un’attenzione mondiale e i suoi brani - anche quelli successivi - iniziano immediatamente ad essere interpretati da vari artisti rock con un successo crescente, da Peter Paul & Mary a The Byrds (le cui reintepretazioni furono talmente numerose, da comporre ben tre antologie specifiche: “The Byrds Sing Dylan”, pubblicata soltanto in Giappone nel 1970; “The Byrds Play Dylan” in tutto il mondo nel 1979; “The Byrds Play the Songs of Bob Dylan”, in Inghilterra nel 2001), fino ad arrivare alle magnifiche interpretazioni di Jimi Hendrix (in studio o live di brani come “Like a Rolling Stone”, “All Along the Watchtower”, “Drifter’s Escape”, “Can You Please Crawl Out Your Window?”).

A
distanza di anni, peraltro, attività tese alla rivisitazione del suo repertorio non accennano ad interrompersi: appena un anno fa, infatti - ed è soltanto l'ultimo esempio di un numero considerevolissimo di omaggi - un colosso della musica country e southern come Charlie Daniels pubblicato "Doin' It Dylan", un intero album di cover di brani firmati da Dylan (qui la rece del disco, mentre qui l'intervista a noi rilasciata dallo stesso Daniels, contenente i ricordi della sua collaborazione con Dylan, risalente al 1969-1970, documentata su tre album: "Nashville Skyline", "New Morning" e "Self Portrait").
Strettissimo, infine, il rapporto maturato con i Beatles, di seguito trattato nel dettaglio.


Bob Dylan e i Byrds negli anni '60

Bob Dylan e i Beatles

I quattro di Liverpool hanno più volte confermato l'enorme ascendenza esercitata da Dylan nei loro confronti.
Per prima cosa, l'americano compare sulla copertina dell'album “Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band”. 

Paul McCartney
ha dichiarato di aver capito il senso della vita a partire dal giorno in cui lo conobbe. “I miei idoli”, ha dichiarato nel documentario "Anthology", “erano l'Elvis pre-esercito, Little Richard, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Fats Domino e Bob Dylan, il nostro idolo.
F
u un grande onore conoscerlo. Ci fu una festa quasi selvaggia quando lo incontrammo. Quella notte mi convinsi di aver capito il significato della vita. Dissi al nostro autista: "Mal, dammi carta e penna (.) e io scrissi il mio messaggio per l'universo. Gli dissi "Mettitelo in tasca!". La mattina dopo mi chiese se volevo quel pezzo di carta. "Oh Sì", risposi. Lo aprii e c'era scritto: "Ci sono sette livelli!".

John Lennon
cita Bob Dylan in due delle sue canzoni: "Yer Blues" (“Non penso che al suicidio, proprio come il Mr. Jones di Dylan"), "God" (ove Lennon opera una demolizione di molti personaggi famosi ripetendo fino all'ossessione la frase "Io non credo in..." (I don't believe in...) facendola seguire da vari nomi, fino a quello reale di Dylan, cioè Zimmerman).
Una citazione più sibillina, invece, viene effettuata in "I want you" che richiamerebbe il pezzo omonimo di Dylan, tratto dall'album "Blonde on blonde". Per stessa ammissione di Lennon, inoltre, "Nowhere man", "I'm a loser", "You've got to hide your love away" e "Help", sono state influenzate da Dylan, mentre alcuni critici vedono l'ombra dell'americano in "And your bird can sing". John dichiarò: "Quando ero un ragazzo, scrivevo poesie, ma sempre per tentare di nascondere le mie vere sensazioni. Ero a Kenwood e volevo solo comporre canzoni e così ogni giorno provavo a scrivere una canzone. Cominciai a pensare alle mie emozioni. Invece di proiettarmi in una situazione esterna volevo tentare di scrivere quel che mi sentivo di aver scritto nei miei libri. Credo che sia stato Bob Dylan ad aiutarmi a capire...".

Nel documentario "Anthology", George Harrison asserisce che uno dei dischi di Dylan che i Beatles ascoltavano in continuazione era "The Freewheelin' Bob Dylan": “Tutti noi Beatles abbiamo conosciuto Bob nel lontano 1964, ma negli anni l'ho rivisto qualche volta. John lo conosceva un po’, ma io lo vedevo una volta ogni 2 anni e ormai è un bel pezzo che lo conosco. Naturalmente, ha fatto il concerto per il Bangladesh con me e inoltre ho scritto un paio di motivi insieme a lui negli anni '60". Il suo brano “Apple Scruffs”, da "All things must pass" è chiaramente dylaniano (non solo per la presenza dell'armonica, strumento assai atipico per Harrison). Lo stesso disco, inoltre, contiene due rivisitazioni di brani a firma di Dylan: “I'd have you anytime” e “If not for you”. Negli anni ottanta, inoltre, entrambi diedero vita al gruppo "The Traveling Wilburys" in compagnia di Tom Petty, Roy Orbison e Jeff Lynne, incidendo due album di successo.

Da notare, infine, che alcuni bootleg documenterebbero brani di Dylan registrati dai Beatles ai Twickenham Film Studios, nel gennaio 1969: "Blowin' in the Wind", "I shall be released", "All along the Watchtower", "Momma you've been on my Mind", "House of the Rising Sun" (non un pezzo firmato da Dylan ma un traditional da lui portato al successo).
Dal canto suo, Dylan ha tributato i 4 di Liverpool intepretando "Nowhere Man", “Yesterday” e "Something" (suonata dal vivo il 13 Novembre del 2002 a New York City) e ha titolato il brano “I wanna be your lover” (dall'album "Biograph"), operando, così facendo, un palese rimando al brano “I wanna be your man”.


La copertina di Sgt. Peppers. Piuttosto riconoscibile, Dylan si trova in alto a destra

L'impegno politico e sociale

Il 28 agosto del 1963, Dylan suona alla Marcia su Washington per i diritti civili davanti al Lincoln Memorial dove Martin Luther King pronuncia il discorso epocale “I had a dream”.
Il mondo del rock degli anni '60, a partire, come sopra detto, dagli stessi Beatles, resta colpito in modo indelebile dall’approccio di Dylan, dal ruolo dell’artista “pop” in relazione alla società contemporanea, dalla concezione poetica applicata al testo della canzone.
Nascono emuli e derivati, ma gli impatti vanno ben oltre l’epoca in cui il suo lavoro emerge prepotentemente per il valore critico dei suoi contenuti.
Dylan è un torrente che modella la popular music anche nei decenni successivi.
Nel 1965, infrange le regole formali del folk-singer e opera la sua svolta elettrica con “Bringing It All Back Home” e tenendo un contestato concerto al Newport Folk Festival del 25 luglio 1965, che lo colloca all’interno del più vasto spazio in ebollizione del rock che si sta in quel momento nutrendo delle sue idee.

Il suo ruolo all’interno dell’immaginario del rock degli anni '60 e '70 sarà talmente rilevante che il Festival di Woodstock, che si svolgerà a Bethel, prende il suo nome dalla località in cui viveva Dylan negli anni '60.
Pensare che l’influsso di Dylan riguardi il mondo dei “cantautori” (figura inventata a tavolino dall’industria discografica italiana negli anni '70 per definire una schiera di autori derivativi dallo stesso Dylan e dalla nuova canzone francese), è altamente riduttivo, in primis perché sarebbero cantautori praticamente tutti, da Johnny Rotten a Paul McCartney, da Ozzy Osbourne a Steve Wonder, in secondo luogo perchè un genere è definito da similitudini formali e culturali che, negli esempi fatti, in base al fatto che ci si trovi innanzi a “cantanti e autori”, non esistono, anzi, sono in totale contrapposizione.
Il nuovo modo di concepire le liriche viene adottato da tutti gli autori del rock (e non solo) a partire dagli anni '60, dai Beatles ai Pink Floyd, dai Sex Pistols ai Radiohead.
Il rock adotta immediatamente questo modello perché è vissuto dal movimento giovanile degli anni '60-'70 come contro-cultura e non come musica di consumo, coniugando l’esigenza di esprimere attraverso questo linguaggio le contraddizioni di una generazione alle aspirazioni commerciali degli imprenditori musicali.

Si innesca un meccanismo che se da un lato porta a riscoprire all’interno delle tradizioni folkloriche e popolari un diverso modo di raccontare la vita, dall’altro induce i nuovi autori a confrontarsi con l’elaborazione lirica come momento di scrittura poetica in grado di esprimere sia la dimensione introspettiva, sia i temi sociali del presente.
Dylan si trova ad essere il personaggio che traghetta la funzione del testo nella popular music ad elemento centrale nel momento in cui la musica assume un ruolo completamente diverso all’interno della cultura giovanile, influenzando anche la musica di consumo che dovrà fare i conti con la lirica come momento di espressione e non solo di spensieratezza.


"The Traveling Wilburys". Da sx: Bob Dylan, Jeff Lynne, Tom Petty, George Harrison, Roy Orbison

Il premio Nobel

A bocce ferme, proviamo a stendere alcune osservazioni sul premio Nobel per la Letteratura riconosciuto a Bob Dylan e sulle polemiche che esso ha suscitato.
Innanzitutto, il Nobel è un premio assegnato da una Accademia nella sua liberalità: non è una delibera delle Nazioni Unite, non è una enciclica papale, non è un riconoscimento da parte del PEN club (la più antica associazione mondiale di letterati), né di altre analoghe associazioni.
Che sia in materia il premio più prestigioso e ambito è un fatto, ma il suo prestigio viene dalla sua storia, non dall’opinione che chicchessia esprime sul suo operato. Che poi l’Accademia Svedese delle Scienze abbia fatto delle scelte diciamo originali – in positivo, assegnando il premio ad alcuni, e in negativo, non assegnandolo ad altri – è un fatto e basta un breve elenco di scrittori per le più varie ragioni mai insigniti del Nobel per capirlo: Marcel Proust, Jorge Luis Borges, Lev Tolstoj, Robert Musil, James Joyce, Francis Scott Fitzgerald, Virginia Woolf, Henrik Ibsen, Marguerite Yourcenar, Vladimir Nabokov, per dire i principali (sotto tutti gli aspetti, il meglio del meglio della letteratura mondiale del ‘900). Di fronte a questo elenco, stracciarsi le vesti per il mancato riconoscimento a Philip Roth o Haruki Murakami è quantomeno stucchevole. Senza contare il fatto che essi possono vincerlo nel corso dei prossimi anni, cosa, questa, che pare non essere considerata da alcuno.

Ma il Nobel non è il Pallone d’Oro: non è una competizione, una gara. E questo è davvero difficile da comprendere, specie qui in Italia. Il premio a Dylan non è il disconoscimento del valore letterario di altre persone e non si concretizza nella stesura di una classifica di merito.
Viene in mente, al riguardo, l’amato Professor Keating de “L’attimo fuggente”, quando si fa beffe delle classificazioni dell’intensità poetica elaborata dall’esimio professor Pritchard.
Ad ogni modo, è sufficiente entrare nel merito, partendo dalla motivazione con la quale il riconoscimento è stato assegnato: “per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana”.
Qualcuno è in grado di contestare questa affermazione? Certo non l’avrebbe fatto Kerouac, che già negli anni ’60 dichiarò di aver cambiato il proprio stile di scrittura dopo aver letto i testi di Dylan. Soltanto questo basterebbe a chiudere la questione.
“Ma Dylan non è letteratura”, è l’obiezione più forte mossa al riconoscimento, cioè a dire che la musica non ha a che spartire con la letteratura. Neanche con la poesia, dunque.
Questa è grossa. Tralasciando il fatto che Umberto Eco, già negli anni ’60 e ’70, la pensava assai diversamente, e che i testi di Giogio Gaber o Fabrizio De André, in quegli stessi anni, entravano nelle antologie scolastiche (a che titolo dunque?), la domanda che ci poniamo è: il testo di una canzone può essere considerato poesia? Se lo è, il discorso è chiuso per la seconda volta; se non lo è, chi lo afferma dovrebbe prendersi il disturbo di spiegare perché, e in modo convincente, magari.

Di certo, il comune sentire – e il buon senso – non ha dubbi in proposito. E se le poesie vengono messe in musica o vengono recitate davanti ad un pubblico, cosa cambia?
Si  pensi ai rilievi mossi all'assegnazione dello stesso premio a Dario Fo, a suo tempo: “il teatro non è letteratura”. In realtà, possiamo disquisire nel merito sul fatto che Dario Fo non abbia fornito un contributo alla letteratura con la sua particolare forma di teatro (e almeno uno di quelli che firma il presente articolo la pensa esattamente in questo modo), non certo mettere in discussione il binomio teatro=letteratura. Altrimenti dovremmo chiederci come mai nessuno abbia mai posto osservazioni alla convinzione generalizzata (e legittima) che Goldoni, Pirandello o Eduardo abbiamo scritto pagine fondamentali di qualunque storia della letteratura.
Ammettiamo che la questione afferente al teatro è un tantino controversa: per chi scrive, il testo teatrale è certamente una forma di letteratura ma è anche vero che il teatro è arte della messa in scena di un testo. Ne consegue che la parte letteraria è una componente di un arte più articolata.
Ad ogni modo, è un fatto che molti di noi hanno letto Shakespeare o Goldoni, ben pochi ne hanno viste le messe in scena.
È un po' come aver visto un film leggendone soltanto la sceneggiatura, componente letteraria di un film.

Tornando alla canzone, si può casomai discutere se i testi delle canzoni siano buona o cattiva letteratura: possiamo tranquillamente affermare che il 90% dei testi siano spazzatura poetica. Tuttavia, un rapido giro in qualunque libreria ci rivela il fatto che una significativa percentuale dei libri sugli scaffali siano spazzatura letteraria. E con ciò?
Analizzando nel dettaglio il  fulcro della polemica – e cioè il rapporto tra Dylan e la letteratura – l'americano è stato senza ombra di dubbio colui che, partendo dalla tradizione underground del folk americano dei Pete Seeger e dei Woody Guthrie e ispirato dalla beat generation dei Jack Kerouac e degli Allen Ginsberg, ha indicato la possibilità di usare il formato del testo della “canzone popular” come modello di espressione poetica.
Egli ha avuto l’opportunità, mettendosi in luce in una fase in cui la nuova musica popolare incontrava la diffusione massiva attraverso nuovi supporti di riproduzione meccanica, di diffondere con suoi testi un modello letterario innovativo in grado di cogliere le contraddizioni del mondo contemporaneo, rifiutando lo schema di testo di evasione e superficiale privilegiato dalla Tin Pan Alley e prevalente nella musica di consumo degli anni 40-50.

Alla luce di quanto sopra espresso, e concludendo, le critiche al premio assegnato a Dylan puzzano insopportabilmente di snobismo culturale e rasentano la scelleratezza laddove spogliano la formula canzone del potenziale comunicativo che innegabilmente essa riveste, denudandola della caratteristica poetica che la contraddistingue, forma letteraria per eccellenza, poco importa se recitata nel silenzio o sublimata da note musicali.




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