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George Martin: l'uomo dietro i Beatles



George Martin. Il trono di note


Con George Martin, scompare una figura emblematica del rock degli anni ’60: il mitico produttore dei Beatles, l’uomo dietro le quinte che ha permesso ai Fab Four di esplorare le diverse possibili declinazioni che il rock’n roll poteva articolare nella sua contaminazione con la musica europea.

Il quartetto di Liverpool era portatore di un tentativo di adattamento del linguaggio del rock americano degli anni 50 - e anche delle nuove strutture di ballata popolare oggetto della riforma dylaniana - alla cultura europea, passando anche per il patrimonio della musica classica e orchestrale.
George Martin è stato anche l’intermediario con le nuove forme di manipolazione sonora derivanti dalla crescita tecnologica degli strumenti e degli apparati di registrazione, in grado di adattare le velleità di contaminazione dei Beatles con le esigenze della produzione discografica.
L’incontro fra Martin e il quartetto ha permesso al gruppo di sviluppare il più grande catalogo degli anni ‘60 di possibili direzioni sonore che il rock avrebbe potuto adottare e in moltissimi casi avrebbe effettivamente preso. 
Sostanzialmente. i perni attorno ai quali si è mossa la produzione del quartetto sono stati due: quello attorno al quale si equilibravano le personalità musicali di Lennon, McCartney e, ancorché in forma più contenuta, Harrison; quello in cui George Martin ne raccoglieva le pulsioni creative rendendole materiale concreto.

George Martin e la musica

Nasce a Londra il 3 gennaio del 1926 e già all’età di sei anni inizia ad avvicinarsi al pianoforte convincendo due anni dopo i genitori a fargli impartire lezioni di musica. Durante la seconda guerra mondiale lavora come impiegato del Ministero della Guerra e nel 1943 entra alla Fleet Air Arm della Royal Navy dove resta fino al 1947, diventando pilota e ufficiale. Dal 1947 al 1950 studia pianoforte e oboe alla Guildhall School of Music and Drama dove – incredibile coincidenza - avrà come insegnante di oboe Margaret Asher, madre di Jane, fidanzata di Paul McCartney nei primi anni ‘60.
Dopo il diploma lavora presso il dipartimento di musica classica della BBC e nel 1950 entra alla EMI come assistente di Oscar Preuss, manager della Parlophone, una sub-label che produceva prodotti di importanza minore. Al ritiro di Preuss, nel 1955, prende le redini dell’etichetta e nel 1962 realizza un singolo “Time Beat” sotto lo pseudonimo di Ray Cathode. Quando incontra Brian Epstein che gli propone questo quartetto scartato dalla Decca, Martin è alla ricerca di nuovi gruppi promettenti.
A prescindere dalla sua storia con i Beatles, ai quali sarà legato in modo indissolubile e per questo definito, a ragione il “quinto Beatle” (sebbene, nel tempo, i critici si scontreranno sul punto, indicando anche Pete Best, il primo batterista, Stuart "Stu" Sutcliffe, il primo bassista, Brian Epstein, il manager storico, Billy Preston, tastierista che comparve in molti brani del quartetto e che suonò anche nell'ultimo concerto), Martin si contraddistingue anche come compositore, sia per la colonna sonora di “Yellow Submarine”, sia per il mitico “Theme One”, magniloquente pezzo realizzato per la BBC e ripreso con successo dai Van Der Graaf Generator, per il soundtrack di “Live and Let Die”, realizzato per l’omonimo film di James Bond.
Negli anni post Beatles, egli continua ad adoperarsi come produttore, una figura che aveva contribuito a creare da zero, continuando a lavorare con innumerevoli artisti tramite la sua società AIR Studios (AIR) come America, Ultravox, Jeff Beck, UFO, Tom Jones, Celine Dion e molti altri.

With the Beatles

Quando il 13 febbraio del 1962 il manager di un gruppo sconosciuto gli fa ascoltare alcuni nastri scartati dalla Decca restando colpito dalla vocalità di Lennon e McCartney. Martin accetta di firmare un contratto poco impegnativo con il quartetto solo dopo aver ascoltato il provino registrato da Norman Smith e Ron Richards il 6 giugno successivo. Dal 4 settembre 1962, Martin inizia a registrare con la band le sessions per “Love Me Do”.
Il percorso dei successi dei Beatles, da quel momento, è ormai nella storia. Per la prima volta in Europa esplode un fenomeno sociologico di massa che risulterà poi tipico della società dello spettacolo.
La musica popolare è entrata nel meccanismo della produzione capitalista come merce ed è contemporaneamente espressione delle aspirazioni delle masse giovanili che, nel corso degli anni ‘60, manifesteranno la loro voglia di rinnovamento utilizzando il rock come forma contro-culturale. 
Un processo complesso che risulterà difficile da gestire agli stessi protagonisti e che metterà al centro sia i Beatles, sia gli altri gruppi musicali, in una specie di transfer collettivo in cui le masse giovanili in cerca di riferimenti vedono nel rock e nei suoi protagonisti un modello da seguire.

Quelli fra il 1962 e il 1966 saranno per i Beatles anni febbrili in cui la “Beatlemania” esplode universalmente e nel corso dei quali i parametri commerciali dell’industria discografica registreranno consistenti mutazioni.
All’inizio degli anni ‘60 i mezzi di diffusione della musica sono la radio e la televisione (che, nella maggior parte dei casi, essendo espressione della Pubblica Amministrazione, sono incapaci di incanalare correttamente le produzioni musicali), i juke box, i mangiadischi e il cinema (sfruttato già dagli albori del sonoro per pubblicizzare i protagonisti della “Tin Pan Alley” e a cui il rock americano si era già rivolto anche per diffondere i suoi artisti, primo fra tutti, ovviamente, Elvis).
Soltanto a partire dalla seconda metà degli anni 60, la diffusione di impianti stereo individuali, dirotta il cuore della produzione verso la vendita dei Long Playing o 33 giri.
In questo panorama in totale evoluzione cambiano anche i modelli formali adottati dai protagonisti del rock, dalle canzoni di pochi minuti pensate per un lato di un 45 giri, si passa a brani di durate superiori e ad opere che assumono nel nuovo formato a 33 giri coerenza attraverso il collegamento di più composizioni in un continuum coerente.

George Martin è colui che accompagna i Beatles attraverso questo percorso che, passando dal semplice arrangiamento d’archi delle ballate di McCartney, consente al quartetto di sperimentare innesti inediti, quelli con il sitar o arricchiti da registrazioni rallentate, accelerate o al contrario, l’uso del Mellotron, la possibilità di giuntare sezioni di registrazione diverse, le contaminazioni con il jazz e altri generi, anche propri della musica popolare.
Il produttore risulterà essere il medium fra le fantasie del quartetto e l’universo musicale conosciuto.
A lui si devono arrangiamenti memorabili come la suggestiva orchestrazione di "Eleanor Rigby", eseguita da un ottetto composto da quattro violini, due viole e due violoncelli, per non parlare del geniale innesto di clavicembalo che caratterizza "In My Life". Era anche un ricercatore di suoni: l'apoteosi orchestrale di "A Day in the life" porta la sua firma. L'orchestra fu un'idea di Paul ma il risultato finale non si sarebbe mai potuto conseguire senza la formazione classica di Martin: fu lui, infatti che tradusse la confusione sonora ideata dal bassista in termini formali fornendo indicazioni per il glissando, guidandoli taluni a ricercare la nota più bassa, altri quella più alta, in un range limitato alle 24 battute. Nella sua biografia "All You Need Is Ears" l'inglese ha candidamente ammesso che gli orchestrali "mi guardavano come se fossi completamente pazzo".

Il suo rapporto con i Beatles si prolungherà anche dopo lo scioglimento del quartetto: curerà, infatti, le mitiche raccolte “Anthology“ nei primi anni ‘90, nelle quali, opportunamente restaurate, compaiono registrazioni inedite, fino a quel momento prerogativa del mercato pirata; nel 1998, realizzerà lo splendido “In My Life” che raccoglie una serie di cover di brani dei Fab Four eseguite da blasonati artisti; nel 2006 pubblicherà “Love”, colonna sonora per lo spettacolo (fortemente voluto da George Harrison) del Cirque De Soleil, in cui, assieme al figlio Giles e previo permesso di Paul McCartney, Ringo Starr, Yoko Ono e Olivia Harrison, remixerà quasi 130 brani dei Beatles montandoli in un unicum espressivo di quasi 80 minuti.
George Martin è stato il tipico rappresentate della middle-class intellettuale e illuminata cresciuta a cavallo della guerra che, pur partendo da un background culturale “tradizionale”, e malgrado il gap generazionale, è riuscito a comprendere i cambiamenti in corso negli anni ‘60 e a diventarne uno dei protagonisti.
Il suo ruolo di catalizzatore della spinta creativa dei Beatles è stato essenziale e con esso trova collocazione fra le menti più creative degli anni ‘60.

 


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