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Electric Muse: la storia del folk-rock britannico e celtico – 1965/1990

 

 

 

 

 

Electric Muse

 

Storia del folk-rock britannico e celtico (1965/1990)

 

di Giuseppe Artusi

 

Dei molti generi, sottogeneri, correnti e scene che hanno composto e animato la musica negli ultimi cinquant’anni, la storia della scena del folk britannico (o comunque lo si voglia definire – e non è semplice) è a suo modo piuttosto singolare.


Negli anni ’70, artisti come Fairport Convention, Lindisfarne e Steeleye Span, persino gli stessi Chieftains, erano nomi da classifica che riempivano tanto le pagine delle più popolari riviste musicali di tutto il mondo quanto le arene in cui si esibivano; altri, come Alan Stivell, l’Incredible String Band, i Pentangle, l’Albion Band di Ashley Hutchings per citarne alcuni, godevano di grande rispetto e i loro dischi si trovavano facilmente negli scaffali di tutti i negozi di dischi. Altri ancora avevano un seguito più di nicchia, e tuttavia erano comunque in qualche modo conosciuti al grande pubblico: Amazing Blondel (molto popolari però in Italia), Lyonesse (chi li ricorda?), i Gryphon, i francesi Malicorne, gli Horslips, senza certo dimenticare la grande scena irlandese che dalla metà degli anni ’70 portò alla ribalta artisti come Planxty, Bothy Band, Clannad e De Danann… E ancora, i grandi gruppi scozzesi, i Tannahill Weavers, gli Ossian, i Silly Wizard, i Runrig o i Five Hand Reel di Dick Gaughan. Come nacque, come avvenne tutto ciò? Chi ne ha memoria? Che importanza ha avuto?

Eppure, la rilevanza e l’influenza di questa vasta scena non fu certo secondaria, visto che toccò molto da vicino artisti quali i Led Zeppelin (che trassero esplicitamente le loro ispirazioni tanto dal blues quanto da Bert Jansch e l’Incredible String Band, per tacer del fatto che il solo musicista esterno ad aver preso parte ad una loro incisione è Sandy Denny), Van Morrison, Donovan (ovviamente),  i Traffic di “John Barleycorn Must Die”, i Jethro Tull, Mike Oldfield, gli Strawbs (peraltro nati come gruppo bluegrass e folk), Cat Stevens, John Martyn e Nick Drake, Elvis Costello, Rod Stewart, Steve Howe degli Yes, gli stessi Gentle Giant; persino David Bowie collaborò ad un disco degli Steeleye Span… E in seguito, negli anni ’80, Kate Bush, i Waterboys, i Silencers e gli Adventures, i Dexys Midnight Runner, Sinead O’Connor, Enya (che per la verità è un membro della famiglia dei Clannad), i Corrs e i Big Country, il Mike Knopfler di “Local Hero”, gli Hothouse Flowers (sempre per far qualche nome),  discendono variamente ma a pieno titolo da quei modelli e quelle suggestioni, così come tanto il nostro Branduardi quanto i Pogues di Shane MacGowan semplicemente non sarebbero esistiti senza il folk-rock britannico: e si possono immaginare due esiti così lontani eppure così intimamente vicini? Persino i Clash hanno qualche piccolo debito nei confronti della scena folk…

Tutto ciò giustifica la domanda iniziale, e quindi val la pena ripecorrere, sia pure per sommi capi, le vicende e i destini di questo peculiare genere.

 

DALLA TRADIZIONE AL REVIVAL

Il folk-rock britannico nasce alla fine degli anni ’60, come del resto moltissimi altri generi; curiosamente, si tratta però di uno dei pochissimi casi di genesi non-post beatlesiana. Dico curiosamente perché trattandosi di un fenomeno tipicamente britannico, è quantomeno sorprendente che esso prescinda dai Beatles. Semmai è il contrario, giacché John Lennon e Paul McCartney iniziano la loro collaborazione nell’ambito dello skiffle, il corrispondente britannico dell’hillbilly, che prende le mosse tanto dai vari esempi della musica americana quanto dalla musica popolare inglese…

In effetti, la scena folk è un tratto caratteristico e fondamentale della cultura delle isole britanniche: il folk revival in Gran Bretagna e Irlanda ha percorso la cultura di quei paesi lungo tutto il Novecento, in Inghilterra grazie soprattutto all’azione dell’English Folk Dance and Song Society di Cecil Sharp e Ralph Vaughan Williams e poi, dal secondo dopoguerra, di quella di Ewan MacColl. Il periodo tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 è quello cruciale: nei folk clubs iniziano ad emergere figure come quelle di Bert Jansch, John Renbourn, Martin Carthy, Shirley Collins, Davey Graham, Roy Harper, Sandy Denny, Anne Briggs, Al Stewart (sì, quello di “The Year of the Cat”), che contaminano il linguaggio duro e puro della tradizione con suggestioni, linguaggi e modelli provenienti da oltreoceano, country, jazz e blues su tutti.

Ed è a questo punto che avviene un curioso cortocircuito. Il personaggio di riferimento, la guida del movimento folk revival è Ewan MacColl, un comunista a tutto tondo, per cui sulla sua scorta i folk clubs hanno una impronta marcatamente sociale se non francamente politica (può essere altrimenti?); del resto, negli anni ’50 il direttore dell’English Folk Dance and Song Society è un altro marxista convinto, Douglas Kennedy. Ma si tratta comunque di un fenomeno a suo modo circoscritto.

In America si fa più sul serio, o quantomeno gli esiti hanno una risonanza su ben più vasta scala: già negli anni ’30 la Carter Family aveva una impostazione e degli intenti dichiaratamente politici (democratici, naturalmente);  Woody Guthrie e Pete Seeger radicalizzano concetti e modelli, e il passo successivo è naturalmente Bob Dylan. I talentuosi giovanotti dei folk club di Soho inizialmente si muovono in modo molto più timido, un po’ perché la parte più tradizionalista del loro pubblico stenta a seguirli, un po’ perché i loro ispiratori americani sono oggettivamente artisticamente assai più avanti (e famosi). Ed è qui che scatta il cortocircuito: un decisivo impulso al recupero e rivitalizzazione del patrimonio popolare britannico viene da un musicologo americano, Alan Lomax. Cultore delle musiche popolari di tutto il mondo, Lomax si trasferisce in Inghilterra negli anni ’50, iniziando a collaborare con la BBC. Le sue trasmissioni hanno un impatto enorme presso il pubblico, ma ancor più lo hanno i suoi contatti con i musicisti, Ewan MacColl su tutti, al quale lo lega la comune militanza marxista. Per la scena folk inglese, la visione universale di Lomax è il lievito, e i giovani musicisti del circuito la pasta di quella che sarà la nuova scena del revival. La riprova della fertilità di quel terreno viene da un giovane ed emergente cantautore americano, Paul Simon; reduce dal deludente risultato della sua prova d’esordio discografico col suo socio Art Garfunkel (“Wednesday Morning, 3AM”), nel 1964 Simon si trasferisce in due riprese e per quasi due anni a Londra, alla ricerca delle radici, di una fonte di ispirazione più originale e pura, e di modelli attraverso cui migliorare tecnicamente ed artisticamente, e naturalmente il suo punto di riferimento sono i folk clubs. I risultati, al di là della sua prima prova solistica (“The Paul Simon Songbook”, pubblicato in realtà in seguito), si vedranno dapprima nei grandi album con Garfunkel (e l’arrangiamento della celebre “Scarborough Fair”, più o meno ‘rubato’ a Martin Carthy, non ne è che la riprova più evidente) e poi in tutta la sua carriera solistica sino ad oggi.

 

NUOVI ORIZZONTI

Ma ai giovanotti inglesi tutto ciò non basta. Del resto, le suggestioni abbondano: viaggi e incontri spingono la ricerca più in là, verso che quella che oggi chiameremmo world music, come nel caso dell’Incredible String Band o del duo Shirley Collins e Davey Graham; e dall’altra parte c’è chi radicalizza il discorso acustico, come Martin Carthy, nume tutelare degli anni a venire, tanto da ricevere la nomina, nel 1998, di MBE. Martin fa da modello a tutta la sua generazione di musicisti traditional, e non solo. Di Paul Simon s’è detto, ma Carthy influenza persino lo stesso Bob Dylan, che all’inizio carriera lo conosce a Londra. Da Carthy, Dylan prende le melodie di diversi brani di “Freewheelin’”: “Girl From The North Country” viene da “Scarborough Fair”; “Lord Franklin” diventa “Bob Dylan’s Dream” (riconoscendo a Carthy i crediti nelle note di copertina), e la melodia di “Masters Of War” è quella di “Nottamun Town”.

Il nome chiave del successo del nuovo folk-rock è quello di un produttore americano, Joe Boyd, già collaboratore di Bob Dylan. Nel ’65 Boyd si trasferisce a Londra, e mentre da una parte dà un impulso al movimento underground, aprendo l’UFO e promovendo Pink Floyd (produce il loro primo singolo) e Soft Machine, dall’altra guarda al revival: mette la sua esperienza al servizio di Martin Carthy e di Shirley Collins, ma soprattutto scopre e lancia l’Incredible String Band, i Fairport Convention, John Martyn, Nick Drake e Vashti Bunyan.

Nomen omen, l’Incredible String Band di Mike Heron e Robin Williamson è la cosa più piuttoresca e a suo modo geniale dell’intero universo del folk. Provenienti dal circolo dei club londinesi, è in realtà un gruppo angloscozzese, quantunque interessi e visione trascendano ogni confine e classificazione. L’ISB nasce nel ’66 come trio, ma perso quasi subito Clive Palmer, dal secondo album Heron e Williamson si fanno aiutare dalle rispettive compagne Licorice e Rose Simpson dando vita ad una autentica comune hippy che produce un bizzarro collage di mantra indiani, medievalezze, dadaiste filastrocche infantili, inni religiosi e marce militaresche, music hall, traditional di qualunque posto, e qualunque altra cosa possa risultare interessante: il tutto, naturalmente, tutto insieme – il bello è quello, ma in modo sempre rigorosamente acustico. Nel 1967 la nuova formazione sforna subito due dischi magistrali, “The 5000 Spirits Or The Layers Of The Onion” e soprattutto “The Hangman’s Beautiful Daughter”, disco amatissimo tanto al tempo quanto oggi, indubbiamente un capolavoro assoluto; i due album scalano le classifiche e hanno una influenza notevole anche sui Led Zeppelin, per esplicita ammissione di Robert Plant. Gli album successivi consolidano la formula, pur se via via con minor creatività e impatto; una sfortunata partecipazione al festival di Woodstock, l’adesione a Scientology (secondo il loro produttore Joe Boyd, la vera causa di tutti i guai), un elefantiaco progetto teatrale fatalmente abortito a metà, e soprattutto l’ispirazione in calo a cavallo del 1970 minano la fama del gruppo, che però l’anno successivo riesce a produrre un altro grandissimo album, “Liquid Acrobat As Regards The Air”, dai toni più malinconici e drammatici, musicalmente più focalizzato e soprattutto per la prima volta moderatamente elettroacustico. Ma è il canto del cigno della band che sprofonda in dischi da dimenticare; l’ispirazione che non c’è più e la storia del gruppo sfocia in una separazione inevitabile e rancorosa.

I due leaders si dedicano a carriere soliste che iniziano sotto i migliori auspici, ma che subito rilevano i diversi atteggiamenti dei due: terreno, concreto, ameno e ironico quello di Heron; mistico, visionario, trascendentale quello di Williamson; la carriera di Mike Heron si rivela però presto erratica e in definitiva poco consistente, mentre di altro livello è quella di Robin Williamson, della quale però parleremo più avanti.

Ilare e profondissima, carnale e metafisica, libera e strutturatissima (seppure secondo canoni tutt’altro che di immediata comprensione), la musica dell’Incredible String Band richiede un mood, un atteggiamento mentale davvero aperto per essere apprezzata nella sua interezza, ma anche a distanza di tanti anni si rivela un progetto solidissimo, profondo e meditato, una visione culturalmente superiore alla media di almeno un paio di spanne.

E poi ci sono i Pentangle. John Renbourn e Bert Jansch sono due tra i più dotati e quotati chitarristi del circuito dei club, innamorati tanto della tradizione britannica quanto del blues, della musica antica (Renbourn in particolare) e aperti al jazz. Iniziano a collaborare pubblicando uno degli album seminali del folk-blues, “Bert & John”; il passo successivo, naturale, è dare corso al nuovo linguaggio. Arruolano Jacqui McShee, cantante folk di buona fama, purissimo soprano leggero dalla straordinaria voce, e poi una sezione ritmica jazz-blues, il contrabbassista Danny Thompson e il batterista Terry Cox, provenienti dall’accademia del blues inglese, la band di Alexis Corner. Il riscontro di pubblico e critica è immediato ed entusiastico: tra il ’68 e il ’69 tre album rigorosamente acustici (“The Pentangle”, “Sweet Child”, “Basket of Light “) mischiano variamente antiche ballads britanniche, standards jazz, danze medievali e blues rurale, e resteranno nella storia. I tre successivi (“Cruel Sister”, “Reflection”  e “Solomon’s Seal”) aprono timidamente all’elettrificazione, ma dopo il 1970 il gruppo sembra segnare un po’ il passo e infine decide di sciogliersi. La storia successiva racconta di carriere soliste altalenanti (soprattutto quella di Bert Jansch, perennemente segnata dai problemi con l’alcool), riformazioni in tono minore da parte di Renbourn e Jacqui McShee, collaborazioni importanti (quella di Danny Thompson con John Martyn è fondamentale) e almeno un progetto di spessore, il John Renbourn Group, ancora con la presenza di Jacqui, che nella seconda metà degli anni ’70 realizza tre pregevoli album (su tutti il primo, “A Maid In Bedlam”) in equilibrio tra musica antica e rinascimentale, folk alla Pentangle e suggestioni etniche.

 

LA NASCITA DEL FOLK-ROCK

A tutti questi musicisti il linguaggio del folk risulta dunque sempre più stretto, e la svolta elettrica di Dylan del ’65 rappresenta l’alba della nuova era. Quello di cui si sente l’urgenza è soprattutto un linguaggio giovane, nuovo, attuale. Occhi e orecchi di pubblico e dei nuovi artisti si orientano dapprima verso la West Coast dei Jefferson Airplane, dei Byrds, dei Grateful Dead e della psichedelia – a suo modo un frutto originale e in linea coi tempi delle originarie radici folk: il corrispettivo inglese è rappresentato dai Fairport Convention. Non sono musicisti folk, è un gruppetto di giovanissimi musicisti espressione della Swingin’ London e dei suoi locali underground; musicisti rock in sostanza, del tutto estranei al circuito della musica popolare. Il loro omonimo album di debutto, nel ’68, è una imitazione incerta e un po’ confusa di quel che i Jefferson Airplane facevano con ben altro spessore al di là dell’Atlantico, ma già col secondo album (“What We Did On Our Holydays”) la proposta si focalizza e si fa più personale.

L’ingresso nel gruppo di Sandy Denny dà la marcia in più: Sandy proviene dai club, nei quali si è fatta una certa fama anche come collaboratrice di Alex Campbell e poi degli Strawbs. È una interprete sensibilissima e acuta, e soprattutto è una cantante straordinaria, dalla voce forte e purissima: la più bella e importante dell’intera storia del folk, e anche più in là. Non solo, è pure una eccellente songwriter. Il suo limite è il carattere; ambiziosa ma anche eternamente insicura di sé, è umorale e incline alla depressione: ha il timore di non riuscire a mettere a frutto le sue straordinarie doti. Un limite che l’accompagnerà per tutta la sua (un po’ contraddittoria, ma ahimé troppo breve) carriera.

Per i Fairport il vero momento topico è l’ascolto di un album seminale, ancora una volta americano. Nel ’68 esce “Music From The Big Pink” della Band; il bassista e co-fondatore dei Fairport, Ashley ‘Tyger’ Hutchings, ne è frastornato e inizia a cercare una via britannica a quello che di lì a poco verrà universalmente chiamato il folk-rock. In quel secondo album e ancor più nel terzo, Unhalfbricking, sempre del ’69, iniziano a comparire i primi traditionals riarrangiati, e per buona misura viene chiamato a collaborare un altro protagonista della scena folk, il violinista Dave Swarbrick, già collaboratore di Ian Campbell e di Martin Carthy. Un drammatico incidente d’auto di ritorno da un concerto, in cui uno dei membri del gruppo muore e altri restano seriamente feriti, è il detonatore: sotto shock, incerti se continuare o smettere, i sei Fairport si ritirano in campagna, in quella che nelle intenzioni di Hutchings deve essere la loro Big Pink. Il risultato è “Liege & Lief”, autentica e riconosciuta pietra miliare del nuovo genere musicale, di cui segna di fatto anche l’inizio: 1969, è nato il folk-rock inglese.

L’originalità della proposta, la sua suggestione e il suo fascino, e non ultimo il suo grande e immediato successo di vendite, crea ben presto imitatori e soprattutto inizia ad influenzare altri artisti e persino case discografiche, la Island in primis. Ma sono i Fairport che faticano a vedersi confinati nel recinto del genere, e dopo il capolavoro il gruppo esplode in tutte le direzioni: non è tanto la storia successiva dei Fairport ad interessarci (complessa, a volte erratica) quanto gli esiti della diaspora ad essere assai rilevanti per la nostra narrazione. I primi ad andarsene sono proprio ‘Tyger’ Hutchings, insoddisfatto per la piega troppo rock che sta prendendo il gruppo, e Sandy Denny, al contrario insoddisfatta per l’ambito comunque folk in cui esso si muove. Curioso ma significativo contrappasso: Tyger viene dal rock ma è attratto dal mondo del folk, da cui invece proviene e ne vuole definitivamente uscire, per coronare le sue ambizioni, Sandy.

I restanti membri (su tutti l’altro co-fondatore Simon Nicol) continueranno sino ad oggi il marchio, tra continui cambi di formazione e di assetti, con pause e ripensamenti, sfornando innumerevoli album dagli esiti artistici più vari: buoni, dignitosi, deludenti e qualcuno anche francamente scadente.

Sandy Denny dapprima forma un suo gruppo, i Fotheringay, col quale realizzerà un altro capolavoro (ancora una volta prodotto da Joe Boyd), “Fotheringay”, per poi insoddisfatta dai suoi esiti commerciali tentare la strada di una carriera solistica che non le darà mai il successo sperato, pure se impreziosita da album tutt’altro che disprezzabili (“The North Star And The Grassman”, “Sandy” e il live postumo “Gold Dust” sono ottimi lavori). Nel mezzo, tra il ’74 e il ’75, un rientro nei Fairport che produrrà due ottimi album, “Fairport Live Convention” e l’eccellente “Rising For The Moon”, ma che si rivelerà ancora una volta commercialmente deludente; la tragica scomparsa della cantante nel 1978, in seguito ad un banale incidente domestico, porrà fine alla sua tormentata storia e darà inizio al mito.

Da ricordare poi almeno altre due delle carriere soliste dei membri storici della band: quella di Dave Swarbrick, che negli anni ’70 e gli inizi degli ’80 pubblica una serie di album a proprio nome, “Swarbrick”, “Swarbrick 2”, “Lift The Lid And Listen”, sono i primi tre e i più significativi, acustici ma molto vari e piacevoli; bello anche “Smiddyburn”, con alcuni brani elettrici che riprongono la formazione storica dei Fairport.

Quella di Richard Thompson è decisamente rilevante, dapprima con un album solo (’72) assai acclamato dalla critica, “Henry The Human Fly”, quindi prosegue in duo con la moglie Linda Peters con cui produce album di grande valore quali “I Want To See The Bright Lights Tonight” (un capolavoro), “Hokey Pokey”, “Pour Down Like Silver”. La carriera del grande chitarrista (e compositore) prosegue alternando prove solistiche e dischi con la moglie, sino alla separazione da quest’ultima nell’82, dopo di che Thompson si trasferisce per un lungo periodo negli States, allontanandosi dal folk-rock a cui ritorna sporadicamente nelle periodi riunioni annuali dei Fairport o per occasionali collaborazioni.

Dal canto suo, Ashley Hutchings dà vita ad un nuovo complesso, gli Steeleye Span, col dichiarato intento di avvicinarsi maggiormente alle fonti originali della musica popolare britannica. Dopo un iniziale tentativo di lavoro con gli Sweeney’s Men (gruppo del quale parleremo in seguito), si ritrova a lavorare con due quotate coppie di artisti della scena folk, Tim Hart e Maddy Prior e i coniugi Gay e Terry Woods (che degli Sweeney’s era uno dei membri originali). Tim e Maddy sono un affiatato duo, autore di un paio di album, “Folk Songs Of Olde England, volumi 1 e 2”, che hanno riscosso un certo interesse nell’ambiente. Con le due coppie Hutchings realizza un disco, “Hark! The Village Wait”, dal sapore più marcatamente british e più lontano dalle suggestioni americane. Ma la formazione non dura: troppe le tensioni e la rivalità tra le due coppie, e i coniugi Woods se ne vanno subito dopo la pubblicazione dell’album. Terry Woods troverà poi negli anni ’80 fama mondiale come membro dei Pogues.

A subentrare sono altri protagonisti della folk scene, il violinista Peter Knight e soprattutto Martin Carthy, a segnare una virata ancor più decisa verso l’ambito squisitamente folk ma suonato con strumenti elettrici; lo sconcerto e il disappunto dei puristi del folk è grande, perché gira e rigira, la questione è sempre quella: acustico versus elettrico. Va bene la scrittura di nuovo materiale sullo stile della tradizione, e passi la commistione con altri linguaggi e altri mondi (coi puristi i Pentangle non hanno di questi problemi), ma l’elettrico no, mai. Certo non da Martin Carthy.

Ma i tempi sono definitivamente cambiati e comunque i risultati dei nuovi Span sono artisticamente eccellenti. Tra il ’71 e il ’72 la formazione registra due album, “Please To See The King” e “Ten Map Mop or Mr Reservoir Butler Rides Again”: i brani suonano in modo ora ieratico, ora maestoso, ora coinvolgente e appassionato, ora leggero e insinuante; l’intreccio elettroacustico è mirabile, la maestria delle voci è sublime, con la purezza cristallina di quella di Maddy Prior a dialogare e intrecciarsi con quelle forti e sicure di Carthy e Tim Hart. Sono due capolavori, che rappresentano in modo compiuto il senso del nuovo genere folk-rock:  rivitalizzazione e attualizzazione della tradizione.

“Ten Man Mop” è però un insuccesso commerciale, reso ancor più bruciante dai costi della produzione (la lussuosissima e costosa copertina serviva anche da spinta promozionale); il manager Jo Lustig spinge per una semplificazione della proposta musicale. Tyger Hutchings non può certo condividere, e lo stesso Martin Carthy preferisce tornare al suo territorio preferito, così i due lasciano. Privi dei loro numi tutelari, gli Span dall’album successivo (il memorabile “Below The Salt”) iniziano un cammino di progressivo avvicinamento al rock che a metà degli anni ’70 li porterà ad essere delle vere superstars globali con album come “Now We Are Six” (prodotto da Ian Anderson e con un cameo di David Bowie al sax), “Commoner’s Crown” (con la partecipazione in un brano di Peter Sellers) e “All Around My Hat”, il loro maggior successo commerciale, che li porterà in testa alle classifiche di vendita di 33 e 45 giri. Il folk a quel punto è poco più che un pretesto, ma la proposta è vincente, tanto che lo stesso Ian Anderson ricorrerà a questa formula per rilanciare i Jethro Tull, con gli album “Songs From The Wood” e “Heavy Horses”, dopo aver al tempo stesso prodotto anche il primo album solista di Maddy Prior e averla chiamata a collaborare a “Too Old To R’n’R Too Young to Die”. Senza dimenticare gli innesti nel gruppo - in tempi, per periodi e con rilevanza diversi - di vari membri dei Fairport Convention: Dave Pegg, Gerry Conway, Martin Allcock, Ric Sanders e persino Dave Mattacks.

Forse per compensare gli eccessi rock e la banalizzazione delle radici tradizionali, alla metà degli anni ’70 Maddy Prior inizia una carriera parallela che subito produce, nel ’76, un album di grande rilevanza: in coppia con la grande June Tabor (e un gruppo di musicisti folk d’eccellenza, tra i quali Martin Carthy, Danny Thompson, Andy Irvine, Johnny Moynihan e Nic Jones: la crème de la crème…) realizza “Silly Sisters”, che al di là del titolo e della copertina sciocchini è uno dei migliori album di revival mai realizzati. L’interplay delle due voci è affascinante, l’affiatamento perfetto, i brani memorabili e il disco riscuote universale consenso.

Tornando al ’71, Ashley Hutchings lascia dunque anche gli Steeleye Span, sposa Shirley Collins e fonda la terza grande istituzione del folk-rock britannico: l’Albion Country Band (e curiosamente, tutte e tre sono ancora in un modo o nell’altro sulla scena). L’indirizzo musicale è ancor più radicale, sempre muovendosi però nella dimensione della musica elettrica, o quantomeno elettroacustica. In origine, è una etichetta che raggruppa i numerosi musicisti che accompagnano Shirley Collins nel capolavoro “No Roses”, ma ben presto il marchio diventa gruppo che sotto varie denominazioni (Albion Country Band, Albion Dance Band e poi semplicemente Albion Band) pubblica vari lavori, diversi tra loro ma tutti assai apprezzabili e importanti, almeno relativamente agli anni ’70 (“Battle Of The Field”, “The Prospect Before Us”, “Rise Up Like The Sun”), con l’aggiunta di altri fondamentali progetti e collaborazioni collaterali - su tutti l’ilare e seminale “Morris On” e il curioso concept “The English Dancing Masters”, storia della danza in Inghilterra dal medioevo ad oggi, con una pletora di musicisti del giro dell’Albion Band e co-firmata da Hutchings col grande fisarmonicista John Kirkpatrick (a sua volta protagonista di una interessante e articolata carriera solista).

Se inizialmente la ricerca di Hutchings si focalizza sulle morris dances, la più tipica forma di danza popolare collettiva, ben presto l’ambito si allarga alle songs, alla musica antica, alle altre dances sino alla canzone d’autore e al teatro. Con lui, alcuni dei più importanti e bei nomi del folk revival, del folk elettrico e persino della musica colta, dagli antichi sodali dei Fairport Convention (Simon Nicol, Richard Thompson, Dave Mattacks), a Martin Carthy, Phil Pickett, John Kirkpatrick e naturalmente la moglie Shirley Collins, oltre a decine d’altri.

 

OLTRE IL FOLK-ROCK

A ben guardare dunque, la storia del folk-rock inglese è scritta nelle vicende originate dai Fairport Convention e dai musicisti che ne hanno fatto parte, anche se naturalmente non si limita ad esse. Nessun dubbio però sul fatto che le intenzioni, il linguaggio, le sonorità del folk-rock inglese, i suoi canoni insomma, si ritrovino tutti in questa sorta di sacra trimurti. Da qui prende le mosse una miriade di altri artisti, a partire dai protagonisti della scena acustica, come Cat Stevens, John Martyn (peraltro proveniente dal circuito dei folk clubs) e Nick Drake, non a caso tutti e tre appartenenti alla scuderia Island, l’etichetta dei Fairport Convention; i secondi due poi, accompagnati da musicisti e produttori del giro degli stessi Fairport e prodotti, come giù ricordato, da Joe Boyd.

Ma la rosa dei nomi è ampia: Vashti Bunyan, Allan Taylor, Nic Jones, June Tabor, Ralph McTell, Roy Harper, Steve Ashley, fino ad Al Stewart e Gerry MacRafferty, per dirne alcuni. Stabilire cosa poi sia folk, cosa sia cantaurorato o cosa altro ancora, è questione di complicata decifrazione e tutto sommato di secondaria importanza.

E poi ci sono altri gruppi, per i quali vale in ogni caso lo stesso discorso; dai Lindisfarne all’Oyster Band, dai Fiddler’s Dram ai ricercati Pyewackett, dai Dando Shaft agli Home Service fino ai Blowzabella, la lista è lunga e presenta, com’è logico che sia, curiose particolarità, come gli Amazing Blondel, con loro pittoresco e un po’ naif recupero di sonorità e linguaggi elisabettiani (nei loro album più famosi almeno, “Evensong”, “Fantasia Lindum”, “England”). Inoltre c’è una serie di gruppi che possono essere considerati folk solo in un senso allargato, presentando semmai analogie con le contigue scene pop, progressive, psicheledica o chissà che altro: i Gryphon, che con la loro curiosa commistione di musica folk, musica medievale e rinascimentale, progressive e avanguardia colpirono talmente Steve Howe da volerli dapprima come supporter in un tour degli Yes e quindi come collaboratori nel suo primo disco solista. Folk in senso piuttosto lato era quello dei Trees (pure se con soluzioni stilistiche vicine a quelle dei Fairport Convention), dei Forest o dei Magna Carta, così come avvicinabili alla scena folk, senza tuttavia farne parte, sono altri artisti dal tratto spiccatamente acustico come i Tudor Lodge, i Mellow Candle, gli Spirogyra, per arrivare, volendo estremizzare, sino alla raffinatissima avanguardia della Third Ear Band… Ma a questo punto siamo già in un territorio diverso, percorrendo il quale troviamo gli Strawbs, i Gentle Giant, i più volte ricordati Jethro Tull e naturalmente Mike Oldfield, che del resto esordì con la sorella Sally come duo folk, e i cui primi album sono intrisi di suggestioni popolari; in particolare “Ommadawn” è in molte parti e nel suo stesso intento, un disco di musica etnica a tutti gli effetti (per tacer dei suoi primi singoli…). Tra i collaboratori dei suoi primi lavori troviamo peraltro almeno un paio tra i nomi più importanti del folk, Maddy Prior e Paddy Moloney dei Chieftains, passando per Clodagh Simonds dei Mellow Candle.

Ora però, occorre sottolineare come l’etichetta folk-rock identifichi normalmente un genere spiccatamente inglese, ma se parliamo più ampiamente di folk britannico, al di là dei confini inglesi le cose stanno in modo alquanto diverso. Per quanto gruppi come gli irlandesi Horslips o gli scozzesi Five Hand Reel e Runrig siano in sostanza band di folk-rock (quantunque di levature artistiche diversissime), gli orizzonti del folk revival scozzese ed irlandese sono ciascuno a suo modo unici. Per farla breve, parlare di folk-rock e parlare di musica celtica non è affatto la stessa cosa, quantunque sempre di folk revival si tratti.

Certo, Ewan Mac Coll e Ian Campbell sono scozzesi, così come John Martyn (e se vogliamo, anche Ian Anderson) e gli artisti del circuito dei clubs interpretano ballate e songs di origine indifferentemente inglese, scozzese e persino irlandese, ma se si parla di musica celtica si intende qualcos’altro; e poi, se pure gli Steeleye Span e i Fairport Convention eseguono spesso danze di origine scozzese o irlandese (generalmente gighe e reels), è anche vero che l’Albion Band ha come ragione sociale il recupero di materiale specificamente inglese.

Come che sia, il folk revival irlandese e quello scozzese presentano origini, peculiarità ed esiti loro propri, partendo dal fatto che il patrimonio musicale di quei paesi è – per ragioni facilmente intuibili – parte fondamentale della loro identità culturale. I musicisti della scena folk tra gli anni ’60 e ‘70 si muovono in un contesto ben più vitale, attuale e vissuto di quanto facciano i loro omologhi inglesi nel chiuso dei loro clubs. A ben vedere, in effetti, una differenza emerge in modo plastico: gli artisti del folk-rock (o folk revival, o quel che è) inglese sono sostanzialmente estranei a questioni politiche (i soli Steeleye Span mantengono un vago orientamento progressista); il che è paradossale, vista la radicalizzazione politica del circuito dei clubs che in sostanza è la loro provenienza. Le loro istanze sono più particolarmente generazionali, quindi sociali sì, ma in un senso completamente diverso. In Irlanda invece, soprattutto a causa della questione nordirlandese che nei decenni in esame raggiunge l’acme della sua asprezza, la politicizzazione – rigorosamente di sinistra radicale – è alquanto più diffusa: Christy Moore, Andy Irvine e i Planxty (e i Moving Hearts in seguito) sono spesso impegnati in prima persona in questo senso, sino al caso limite dei Wolfe Tones, dichiarato braccio musicale dell’IRA. Allo stesso modo, artisti e gruppi scozzesi hanno sempre fermamente rivendicato l’indipendenza culturale (più raramente francamente politica) della Scozia, da Dick Gaughan e i Five Hand Reel, dai Tannahill Weavers ai Silly Wizard. In ogni caso, è fuor di dubbio che i temi sociali siano sempre stati assai più presenti nelle scelte e negli orientamenti dei musicisti irlandesi e scozzesi di quanto non lo siano stati per i loro omologhi inglesi.

 

NELL’ISOLA DI SMERALDO

In Irlanda non esiste l’istituzione dei clubs né un corrispondente della English Folk Dance and Song Society; il ruolo di conservazione e promozione del patrimonio popolare dal secondo dopoguerra venne svolto (ed è svolto tuttora) dalla Comhaltas Ceoltóirí, con le sue sedi sparse in tutto la nazione nelle quali ci si ritrova, si fa musica, si danza, si raccoglie materiale, si discute e si insegna, insomma si fa cultura musicale a tutto tondo, però in un modo un po’ diverso rispetto ai club inglesi.

La figura fondante il folk revival irlandese è quella di Seán O Riada, musicista, direttore, compositore e musicologo, che tra gli anni ’50 e ’60 diede un impulso fondamentale alla conservazione e rivitalizzazione della musica tradizionale irlandese. Alla fine degli anni ’50, O Riada fonda una sua orchestra tradizionale, i Ceoltóirí Chualann: a farne parte viene chiamato un talentuoso piper ventenne, Paddy Moloney, che quasi subito, nel giro di pochissimi anni, forma con altri membri dell’orchestra un suo gruppo, i Chieftains. L’idea è quella elaborata da O Riada: un ensemble quasi cameristico, rigorosamente acustico, che esegua arie e danze strumentali (con sporadiche incursioni vocali rigorosamente non accompagnate, come da tradizione), con qualche innovazione, come l’introduzione nell’ambito di una band di strumenti quali il bodhran – il caratteristico tamburo irlandese – e in seguito l’arpa e altri strumenti di origine classica (oboe, cembalo, pianoforte e altro ancora).

L’ambito è comunque semiprofessionale: tra il disco d’esordio del ’63 e il secondo album intercorrono sei anni, e altrettanti ne servono per passare definitivamente al professionismo, sull’onda del montante successo internazionale; i cambi di formazione si susseguono: qualcuno lascia per età, qualcuno perché già dottore (il flautista Michael Tubridy abbandona nel ’77 preferendo il lavoro di ingegnere: sua è la mirabile sistemazione della Merrion Square di Dublino, così come i lavori di ampliamento dell’aeroporto sempre di Dublino), ma col quinto album i Chieftains diventano stars internazionali, veri ambasciatori della cultura musicale irlandese e molto più di questo. Nel ’79 suonano davanti ad un milione di persone per papa Woytila e a partire dagli anni ’80 iniziano una serie di esplorazioni e collaborazioni con musiche e musicisti di tutto il mondo, dalla Cina a Cuba, dalla Galizia al country, dalla Bretagna al rock. Su tutte, strepitosa è la collaborazione con Van Morrison che dona (è l’88) un frutto bellissimo e succoso, l’album “Irish Heartbeat”. L’infaticabile motore è sempre lui, Paddy Moloney, un autentico genio musicale, folletto vitalissimo, curiosissimo e umile.

La lezione, il modello dei Chieftains (e di O Riada, ricordiamolo) diventa presto lo standard; il loro modo di far musica, di arrangiarla e di proporla per il grande pubblico diventa tout court la musica irlandese, esempio perfetto di cosa si intenda con folk revival: innovazione nel solco della tradizione. E ricordiamolo: a differenza di tutti gli altri gruppi di folk revival, i Chieftains almeno sino agli anni ’80 (quando però l’età media degli appassionati e del pubblico del rock si sarà inevitabilmente alzata…) non si rivolgono espressamente al pubblico giovane, benché partecipino anche a festivals e occupino le pagine delle riviste rock più o meno specializzate. Non tanto per l’età dei componenti del gruppo, quanto per estrazione musicale, interessi e in definitiva per l’orientamento della loro proposta musicale: niente chitarre o plettri nei dischi dei Chieftains...

Prima degli anni ’70, l’altro grande riferimento della musica irlandese sono i Dubliners, che incarnano lo spirito più roboante, irruento, chiassoso, diremmo popolaresco dell’animo irlandese. Nati curiosamente nello stesso anno dei Chieftains, il ’62, raggiungono però quasi subito il successo, tanto da apparire nel ’68 addirittura al Top of the Pops inglese. Molto meno raffinati e ricercati dei Chieftains, del tutto lontani da sonorità e suggestioni della musica classica, resteranno sempre fedeli al loro cliché e loro pubblico. L’ondata del nuovo folk irlandese negli anni ’70 li manderà un po’ in ombra, ma sapranno produrre uno scatto memorabile nella seconda metà degli anni ’80, quando collaboreranno con i nuovi idoli, i Pogues, per alcuni aspetti loro alunni ed epigoni; i risultati saranno un paio di singoli clamorosi, “Irish Rover”, con tanto di travolgente passaggio televisivo, ed il curioso “Jack’s Heroes”, inno della nazionale irlandese di calcio ai mondiali del ’90 (dove Jack era naturalmente Jackie Charlton, ct della nazionale).

 

LA NUOVA TRADIZIONE IRLANDESE

Ma negli anni ’60 c’è ben altro a bollire in pentola. L’inquitudine giovanile tocca anche i giovani irlandesi che quantunque parte di una società ancora rurale e arretrata, come i loro coetanei europei ed inglesi non sono certo indifferenti alle suggestioni americane.

La linea è indicata dagli Sweeney’s Men: Andy Irvine, Johnny Moynihan e Terry Woods, nella loro formazione più importante. Nati nel ’66, due anni dopo pubblicano un album (Sweeney’s Men) contenente già tutti gli elementi che caratterizzano il folk revival irlandese degli anni ’70: traditionals irlandesi ma anche generalmente britannici e americani, interpretati su un tappeto di plettri con qua e là uno strumento tradizionale, whistle o concertina. È già evidentissima la distanza con l’approccio dettato da O Riada e dai Chieftains, pressoché unicamente strumentale e basato sugli intrecci strumentali di violino, whistle e uillean pipes; approccio che per così dire istituzionalizza il modo di far musica delle cèilidh band, i gruppi musicali tipici del folk irlandese (e scozzese) del ‘900. Non solo, nello stile tradizionale, il sean-nós, il canto è non accompagnato; gli Sweeney’s invece replicano e adattano il modello dei folk singers americani: Andy Irvine è un appassionato di Woody Guthrie e di skiffle, e del resto la sua storia e la sua formazione lo portano ad approcci eterodossi, creativi ed originali. Nato e cresciuto a Londra da padre scozzese e madre – attrice – irlandese, sin da piccolo recita in piccoli ruoli in tv, studia al conservatorio e come tutti i suoi coetanei si appassiona alle novità musicali del momento e, caso abbastanza raro, per tutta la carriera collaborerà indifferentemente con colleghi tanto irlandesi quanto inglesi.

Altrettanto importante e decisiva è poi un’altra novità introdotta dal trio. Moynihan usa come accompagnamento uno strumento che assolutamente nulla ha che fare con la tradizione irlandese: il bouzouki, strumento balcanico accordato secondo le necessità della musica britannica. In senso stretto, anche banjo e mandolino non appartengono alla tradizione, ma sono strumenti in uso alle cèilidh band dagli anni ’20, e del resto anche la semplice chitarra acustica è uno strumento estraneo alla tradizione musicale irlandese; il bouzouki è però qualcosa di davvero nuovo e sorprendente. Il senso ritmico, le sonorità dello strumento attecchiscono immediatamente e il bouzouki diventerà uno strumento caratteristico del nuovo folk irlandese, soprattutto grazie anche all’uso che ne farà un altro dei grandi mentori del nuovo stile, Dónal Lunny.

Gli Sweeney’s Men non hanno vita lunga: Andy Irvine lascia presto, intraprendendo un lungo viaggio nell’Est Europa, soprattutto nei paesi balcanici, che porterà i ritmi e le melodie balcaniche nel mondo del folk irlandese. Ritornato in Irlanda, conosce Dónal Lunny che lo invita alle session di un disco solista del suo sodale Christy Moore. Christy e Dónal sono amici d’infanzia e poi compagni in un gruppo – gli Emmet Spiceland – sorta di boy band irlandese che nel ‘68 ha l’onore del numero 1 nelle classifiche irlandesi con un singolo. È il 1971 e il disco così prodotto, “Prosperous”, segna un punto di svolta. Tra i vari altri musicisti impegnati, spicca il piper Liam O’Flynn, nome emergente del folk revival. I quattro, Irvine, Lunny, Moore e O’Flynn decidono di proseguire la loro collaborazione dando vita ad un gruppo: i Planxty, il nome capitale del nuovo corso del folk irlandese.

I primi due album (“Planxty” e “The Well Below The Valley”) sono un trionfo, così come i loro concerti, e definiscono il genere. Il gruppo suona in modo furibondo ed estensivo per quasi due anni: non può durare. Il primo a decidere di lasciare è Lunny, che continua però a collaborare in studio; il suo posto è preso dall’ex Sweeney’s Moynihan, con cui i Planxty incidono il terzo album, “Cold Blow And The Rainy Night”. Quindi è Christy Moore a voler continuare la sua carriera solista e il suo posto è preso da Paul Brady; col nuovo assetto, i Planxty suonano in tour per un anno, senza però incidere alcuna traccia, per poi sciogliersi definivamente, in modo naturale.

La separazione è del tutto amichevole, e i vari membri continueranno a collaborare nei rispettivi progetti, due dei quali rappresentano un vero botto. L’anno seguente, il ’76, Irvine e Brady realizzano un album a loro nome, “Andy Irvine Paul Brady”, ed è un disco di rara bellezza; due anni dopo Paul Brady realizza il suo primo solo, “Welcome Here Kind Stranger”, nominato Folk Album Of The Year dal prestigioso Melody Maker.

Dónal Lunny intanto ha iniziato a prendere in mano le redini del folk irlandese: fonda una sua casa discografica, la Mulligan Records, collabora con numerosi artisti e inizia una carriera di produttore musicale. In uno di questi progetti, nel ’75 collabora con i due fratelli O’Dhomnhaill, Triona e Michael, collaborazione che presto sfocia nella nascita di un nuovo gruppo: la Bothy Band; a completare l’organico altri nomi prestigiosi o emergenti della scena folk, come Matt Molloy, Paddy Keenan e Tommy People, in seguito rimpiazzato da un giovane fiddler, Kevin Burke. Il sestetto pubblica nel giro di tre anni tre album fondamentali: “The Bothy Band”, “Old Hag You Have Killed Me” e “Out Of The Wind Into The Sun”, e suona senza risparmio. Interpretazioni rutilanti, calde, coinvolgenti: la Bothy Band è la massima espressione del nuovo folk irlandese, che fonde la tradizione delle cèilidh band con lo spirito dei Planxty; stremata però dai debiti, la band si scioglie nel ’79, con un’ultima testimonianza, stavolta live, della sua grandezza: “Afterhours”. I membri si disperdono per vie diverse: Molloy entra nei Chieftains a sostituire Michael Tubridy; Burke e i fratelli O’Dhomhnaill vanno a cercar fortuna in America. Ma è Lunny che in qualche modo lenisce lo scoramento dei fans: nello stesso anno a sorpresa si riformano i Planxty.

Il quartetto originario stavolta arruola un quinto membro, Matt Molloy, e tra il ’79 e l’80 produce due album. Il primo, significativamente intitolato “After The Break”, riprende dove avevano lasciato, ed è strepitoso, grazie anche al flauto di Molloy che arricchisce la palette sonora della band. Il secondo, “The Woman I Loved So Well”, lascia più interdetti per le sue sonorità più atmosferiche, aggiornate al gusto degli entranti anni ’80: non c’è più Molloy, rimpiazzato dalla violinista Nollaigh Ní Chathasaigh, dal duo Noel Hill e Tony Linnane, e soprattutto dalle tastiere elettroniche di Bill Whelan, primo strumento non acustico in un disco del gruppo. Il gruppo comunque ancor oggi la considera la loro prova più matura e soddisfacente, ed è oggettivamente un gran disco. Ancora due anni ed esce il terzo capitolo, “Words And Music”, in tono un po’ minore: i Planxty hanno terminato la loro lezione. A margine, una sorprendente partecipazione all’Eurofestival con un brano, “Timedance”, che darà lo spunto per il progetto “Riverdance”.

Ancora una volta, lo scioglimento prelude ad una miriade di progetti e di dischi, alcuni anche di grande bellezza, come il primo disco solista di Lunny, intitolato semplicemente col suo nome, in realtà un live tratto da concerto dell’87. Lunny è poi il curatore dell’album “Common Ground”, che raccoglie diverse voci della musica irlandese con l’intento di mostrare per l’appunto i punti di contatto tra i diversi linguaggi della tradizione, del revival e del pop.

Ci sono poi i due gruppi di Andy Irvine, a lato della sua importante carriera solista: con Jackie Daly (De Danann), Kevin Burke (Bothy Band) e Arty McGlynn (presto rimpiazzato da Ged Foley) forma i Patrick Street, supergruppo che per quasi due decenni darà lustro al folk irlandese in giro per il mondo anche attraverso una decina di album di ottimo livello (il primo, omonimo e il secondo, “No.2 Patrick Street” i migliori); e poi i Mozaik, gruppo multietnico autore negli anni 2000 di due soli ma pregevoli album.

E poi i Moving Hearts di Christy Moore e Dónal Lunny, che gruppo folk non è se non in senso lato, ma di enorme impatto culturale e sociale, pur se di non lunga vita.

Ascrivibile in qualche modo al giro dei Planxty come detto è poi il celebre spettacolo “Riverdance”, curato da Bill Whelan.

Ma la storia dei Planxty non è ancora finita: all’inizio del nuovo millennio ha una coda originata da un documentario commemorativo sulla band realizzato dalla RTE, la tv di stato irlandese. L’interesse per il gruppo si risveglia e i quattro sono spinti a tornare sulle scene per un concerto, cui poi ne seguono altri, sino a che, nel 2004, da uno di questi la band trae un dvd e il relativo cd, “Live 2004”, ed è una grande esibizione. Con ogni probabilità, il loro commiato.

Alla lista dei grandi gruppi del folk revival irlandese vanno poi aggiunti due altri nomi.

Il primo naturalmente è quello dei Clannad, forse il più popolare dopo i Chieftains. Sono una band di familiari: i tre fratelli Brennan, e i due gemelli Duggan, loro zii; provengono dal remoto Donegal e sono autori di una proposta musicale davvero originale. Solo gruppo originariamente di lingua gaelica, negli album degli anni ’70 mischiano sapientemente tradizione irlandese e jazz acustico con risultati evocativi e suggestivi, il cui vago riferimento sono i Pentangle: chitarre, flauti, arpa, accompagnati da un contrabbasso eterodosso e una vocalità raffinata che trascende i canoni tipici del genere e che raggiunge i vertici espressivi in “Clannad 2”, “Dúlamán” e “In Concert”. L’avvento degli anni ’80 li vede però impegnati nella ricerca di un pubblico più vasto; il look hippy sparisce, lasciando il posto ad abiti alla moda, e dopo “Fuaim” (’82) le sonorità si fanno via via più vicine dapprima al rock (con la partecipazione di Bono al grande hit “In A Lifetime”, in “Macalla”) e quindi addirittura alla new age. Il successo di vendite è garantito, l’interesse del pubblico specializzato ovviamente molto meno. Per stare al genere, ricordiamo che Enya ha fatto parte dei Clannad, essendo la sorella minore di Pól, Máire e Ciáran Brennan (o Bhraonáin, secondo la grafia gaelica utilizzata agli inizi: Enya stessa sarebbe in realtà Eithne).

Destino per certi aspetti analogo è quello dei De Danann (in seguito, chissà perché, De Dannan). Nati alla metà degli anni ’70 e originari della zona di Spiddal, nel Connemara, inizialmente propongono una rivisitazione della tradizione curata e fedele, anche con la collaborazione  (nell’album “The Mist Covered Mountain”) di anziani cantanti seán-nos. I membri del gruppo – Frankie Gavin, Alec Finn, Johnny ‘Ringo’ MacDonagh, Jackie Daly (poi nella Bothy Band), Charlie Piggott – sono valenti musicisti, e ad essi si affiancano altri interpreti come Johnny Moynihan (ancora lui) e Martin O’Connor, o le cantanti Dolores Keane, Mary Black e Maura O’Connell. Il passaggio agli anni ’80 li vede allargare gli orizzonti, soprattutto verso il repertorio della music-hall americana e irlandese (davvero gradevoli e coinvolgenti soprattutto “The Star Spangled Molly” e “Ballroom”).

È in questo periodo che Mike Scott dei Waterboys si trasferisce a Spiddal, eleggendolo a buen retiro in cui ritrovare l’origine, le radici della sua musica. La collaborazione coi De Dannan viene naturale, così Gavin, Finn e O’Connor prendono parte ad alcune delle sessions da cui scaturirà “Fisherman’s Blues”.

Alla lunga però il nuovo orientamento dei De Dannan mostra la corda e scema per qualità e interesse, sino all’improbabile “Welcome To The Hotel Connemara” (!), col quale ritentano – malamente – il colpo riuscito con la rilettura irish-style di “Hey Jude” dei Beatles. La storia ci racconta come finisce la corsa: il nuovo millennio vede Frankie Gavin rifondare il gruppo come New De Dannan, che tra lustrini e abbigliamento in stile Las Vegas e avvenenti fanciulle ai violini gira gli States proponendo uno repertorio irlandese molto addomesticato per un pubblico verosimilmente di una certa età e certo di bocca buona. Dopotutto deve trovare anche lui un modo per campare…

Se Bothy Band e De Dannan in sostanza aggiornano, attualizzano e modernizzano il modello delle cèilidh band, sono molte altre le band che a loro fanno riferimento: Oisín, Altan, Stockton’s Wing, In Tua Nua, Cherish The Ladies (band completamente femminile), i più tardi Arcady o i Gaelic Storm resi celebri da Titanic… la lista sarebbe lunga e un po’ ripetitiva, con gruppi come gli Anúna, ensemble vocale di una certa fama mondiale, che calcando sull’aspetto evocativo e mitico del celtismo, finisce in territori pericolosamente contigui alla new age; così sono ascrivibili più al facile pop di consumo colorato di celtismo che al revival i già citati Corrs o le Celtic Woman o ancora Loreena McKennitt.

Qualche parola va però spesa per gli Horslips, se non per qualità, almeno per la popolarità di cui godono negli anni ’70 e per la loro espressa militanza politica assai vicina all’IRA. Gruppo in realtà più di rock-folk, assimilabile stilisticamente ai Jethro Tull (ovviamente con infinita minor grazia, originalità e spessore musicale), all’inizio carriera realizzano però qualche album interessante (“Happy To Meet Sorry To Part”, dalla elaboratissima ed originale copertina, “The Tain” e “Drive The Cold Winter Away”, acustico e composto).

Più complesso invece fare un discorso sulle figure e sulle produzioni dei vari solisti: innanzitutto e fondamentalmente perché risulta spesso molto difficile e arbitrario il discernere tra tradizione  e revival (che è il tema di questo articolo); in secondo luogo perché è di conseguenza è altrettanto difficile dare una valutazione di merito tra i vari artisti e i relativi album; in terzo luogo perché le collaborazioni in duo o trio tra i vari artisti renderebbero estremamente complicata (e noiosa) l’esposizione; infine, per il gran numero di artisti che si dovrebbero citare e le relative note biografiche, carriere e partecipazioni a gruppi e progetti.

 

IL REVIVAL SCOZZESE

Se Inghilterra e Irlanda segnano le due diverse vie del folk revival (tendenzialmente elettrica e orientata al rock, la prima; quasi esclusivamente acustica la seconda), pur partendo entrambe da stimoli, modelli e suggestioni americane, la Scozia si limita ad andare al traino. Non che difettino cultura musicale, seguito di pubblico, motivazioni sociali, tratti di forte originalità od organizzazione dei clubs, tutt’altro. Dal dopoguerra esiste in Scozia una istituzione analoga all’English Folk Dance and Song Society, la School of Scottish Studies; inoltre, non mancano certo la documentazione storica e le fonti cui attingere, a partire dalla grande raccolta di Francis James Child, The English and Scottish Popular Ballads cui fanno sovente riferimento i colleghi anglosassoni. Per non parlare delle produzioni dei due grandi cantori dell’identità scozzese, Robert Burns e Sir Walter Scott. Infine, le terre più remote della Scozia – Highland settentrionali, l’isola di Skye e le Ebridi – sono gaeltacht, cioè territori a lingua celtica, in cui la memoria e le tradizioni storiche sono vivissime. In effetti, al di là dei riferimenti e delle ricerche storiche, anche in Scozia la musica è una manifestazione fondamentale e attuale dell’identità collettiva, sia nelle feste popolari che nei momenti di ritrovo più familiari. La scena dei cantanti popolari  nei decenni ’50 e ’60 è vitalissima e assai popolata, tra chorus groups, entertainers e vocalists generalmente intesi.  Ancora: uno dei simboli scozzese è uno strumento musicale, la bagpipe – la cornamusa –, che però ha uno status troppo rigido, codificato, e se vogliamo esclusivo, tradizionalista, per riguardare veramente un movimento di folk revival. Non che manchi nemmeno un interesse in questo senso, anzi, ma nonostante tutte le condizioni iniziali, il movimento del folk revival in Scozia stenta a prender corpo e a decollare, e di fatto nasce solo negli anni ’70, senza peraltro assumere mai le dimensioni, l’importanza ed anche la qualità complessiva dei due movimenti vicini. Come mai?

Le ragioni non sono facili da indovinare e da cogliere. Manca innanzitutto la spinta iniziale; gli scozzesi per cominciare sono interessati più che ad elaborare la loro identità, a distinguerla da quella inglese, verso cui nutrono sentimenti di ostilità e di sotterranea inferiorità. Certo, Ewan MacColl è scozzese, ma è soprattutto un comunista, cui interessa più l’unione dei popoli (oppressi) che le loro rivendicazioni nazionalistiche. Inoltre, rispetto all’Irlanda gli scozzesi non hanno nemmeno la ferita aperta della divisione nazionale da sanare; anzi, è bene ricordarlo, nella questione nordirlandese gli scozzesi presbiteriani stanno dalla parte “sbagliata” della barricata.

Per cui, se da una parte musicisti e giovani scozzesi vivono le pulsioni, le spinte innovatrici comuni alle altre parti delle isole britanniche (e del resto del mondo), dall’altra sono frenati dal rifiuto di aderire a modelli provenienti da Londa e dall’Inghilterra, per quello che se vogliamo è alla fine puro spirito di contraddizione. E rispetto all’Irlanda, non hanno né la necessità né l’interesse di aderire a modelli musicali che veicolano protesta sociale e politica, come quelli di Woody Guthrie o Bob Dylan, per intenderci. Forse è solo come conseguenza di tutto ciò che infine manchino figure guida, innovatori, modelli e ispiratori per una operazione di revival originale e innovativa.

Ora, se un musicista scozzese vuole far carriera (negli anni ’60-’70, ma anche oggi) deve andare a Londra, non ci sono santi. È così per Ian Anderson così come per John Martyn, ed è un atteggiamento cantato in modo splendido da Rod Stewart (peraltro nato già a Londra) in “Farewell”, nell’album “Smiling”, del ’74. Fieri del loro isolazionismo, i musicisti del folk revival si guardano bene dal farlo, né hanno alcun interesse (e perché no? motivo) per pensarci.

En passant, è la ragione principale per la quale oggi è estremamente difficile trovare gli album di questi musicisti: quasi nessuno di loro è entrato nella scuderia di una casa discografica inglese, e i cataloghi delle etichette specializzate locali se non sono stati distribuiti al tempo o rilevati in seguito da una casa statunitense (Shanachie, Green Linnet), sono semplicemente destinati all’oblio; anche quelle che sono sopravvissute arrivando a pubblicare i loro titoli in cd, non hanno poi avuto né la forza né l’interesse economico per ripubblicarli: l’unica risorsa resta il vinile nel mercato dell’usato (di ripubblicazioni in vinile, neanche a parlarne).

Ai musicisti del revival scozzese, scartato dunque l’approccio elettrico in voga nella capitale, non resta che guardare all’Irlanda: del resto le cèilidh band sono un fenomeno assai diffuso anche in Scozia. Le istanze politiche e sociali che muovono i colleghi irlandesi sono però abbastanza estranee ai musicisti scozzesi: le loro rivendicazioni non vanno oltre allo stabilire e il marcare la differenza tra loro e gli inglesi. I vari artisti del folk revival scozzese sono tutti fieramente nazionalisti, e si capisce, ma le loro posizioni politiche raramente andranno più in là di questo. Non è molto, specie per un movimento che, volendo esprimere dal basso il sentimento e le istanze di un popolo, in qualche modo di fatto pone e suggerisce azioni politiche e di cambiamento.

Per farla breve, gli artisti del folk revival scozzese artisticamente non sono che fratelli minori dei colleghi irlandesi. Ciononostante, la Scozia alcune band di rilievo riesce a produrne.

 

LA SCOTTISH WAVE

Tra tutte, la più rilevante è quella dei Silly Wizard, dei fratelli John e Phil Cunningham (violino e fisarmonica) e del cantante Andy M. Stewart; a supporto, una ritmica costituita da basso e chitarra acustica. Il repertorio è misto, traditional scozzesi (danze e ballads) e composizioni originali, perlopiù songs scritte da Stewart, il quale oltre ad essere un eccellente cantante, dalla voce calda, matura e pacata, è anche una gran bella penna; il resto lo fa la maestria dei fratelli Cunningham.

Niente di particolarmente innovativo, il modulo come è detto è quello canonico delle band irlandesi, ma tra la metà degli anni ’70 e quella degli anni ’80 una manciata di album tutti di grande suggestione e bellezza, dall’aria sempre malinconica e struggente; su tutti “So Many Partings” e “Kiss The Tears Away”. Lo scioglimento del gruppo avviene per naturale esaurimento: Stewart continuerà una carriera solista già intrapresa nell’82, con una bella serie di album, alcuni dei quali in società con Manus Lunny, fratello di Dónal: “By The Hush” e “Songs Of Robert Burns” (acclamatissimi), e “The Man In The Moon” i migliori. I Cunningham vanno in America, mercato al quale il gruppo si è già rivolto con discreto successo nell’ultima parte della sua storia, anche qui secondo uno schema già visto in molti artisti irlandesi. E si capisce: dopotutto, negli States ci sono molti più irlandesi e scozzesi di quanti non ce ne siano in patria… Lì, i Cunningham incontrano i fratelli O’Dhomnhaill della Bothy Band. I quattro danno vita ad una formazione, Relativity, dalla breve vita: solo due album ma di buonissimo valore, “Relativity” e “Gathering Pace”, che aggiornano appena ai tempi le sonorità di un repertorio scoto-irlandese più logico e conseguente di quanto si possa pensare. Dopotutto, da due decenni le varie band di revival interpretano brani di provenienze diverse senza troppi problemi. Del resto, non mancano precedenti illustri. I Boys Of The Lough dagli anni ’70 danno vita ad un progetto che potremmo chiamare “pangaelico” di riunione delle culture musicali di Scozia, Irlanda, Shetland, Ebridi e della Northumbria, l’estremo nord inglese, con una miriade di musicisti di gran levatura e fama provenienti da tutti questi paesi che si alternano in formazione. I dischi di Silly Wizard, Andy M. Stewart e Relativity sono facilmente reperibili in cd; quelli dei Boys of the Lough solo in parte.

Altrettanto importante quanto piuttosto singolare è il caso dei Five Hand Reel, pregevolissima band attiva nella seconda metà degli anni ’70. Intanto è un gruppo di folk-rock elettrico e non di revival, il cui modello sono chiaramente i Fairport Convention (Simon Nicol non a caso produrrà il loro terzo e migliore album, “Earl O’Moray”); ma ancor più di questo, è un gruppo anglo-scozzese e questa è una vera rarità. Formati da tre musicisti inglesi (tra cui un ex-Tree, Barry Lyons) e da due scozzesi, a rimpiazzare ben presto uno di questi ultimi è Dick Gaughan, pure scozzese, già affermato come solista e poi membro dei Boys Of The Lough; la formazione registra tre notevoli album prima che nel ’78 Gaughan lasci, tornando alla sua importante carriera solista che ne fa il cantante più importante di Scozia, voce di posizioni politiche e sociali piuttosto radicali. A rimpiazzarlo è il nordirlandese Sam Bracken col quale i Five Hand Reel registrano nel ‘79 il quarto e ultimo album, “A Bunch Of Fives”, sempre di ottimo livello.

 

La altre due band scozzesi più importanti del folk revival sono gli Ossian e i Tannahill Weavers.

Se i Silly Wizard, pur essenzialmente acustici, ricorrono ad un moderatissimo uso dell’elettrificazione (basso e qualche sporadica tastiera), gli Ossian sono invece più integralisti. Il loro approccio non è in fondo molto diverso benché, rispetto ai Silly Wizard, più pacato, composto e quasi cameristico, con l’uso di un vasto range di strumenti, compresi arpa celtica, cornamusa scozzese, irlandese e della Nurthumbria. Evoluzione di un gruppo elettrico di folk/rock/jazz fusion di non grande successo, i Contraband, gli Ossian sono attivi nel decennio tra la fine degli anni ’70 e degli anni ’80 (con una coda di altri dieci anni successiva). Gli album migliori sono sostanzialmente i primi quattro (“Ossian”, “St.Kilda Wedding”, “Seal Song”, “Dove Across The Water”), nei quali al canto si succedono Billy Ross e Tony Cuffe, cantanti di notevole spessore. Cuffe, già membro di Alba e Jock Tamson’s Bairn, purtroppo è mancato nel 2001, a soli 47 anni, dopo essersi trasferito negli USA; oltre che cantante era anche valente strumentista ed autore, e firmò un pregevole album solo, “When First I Went To Caledonia”.

I Tannahill Weavers, forse il gruppo della cosiddetta scottish wave emersa alla fine degli anni ’70 più celebre in Italia e molto popolare anche in tutta Europa, del terzetto sono i più esuberanti e se vogliamo caratteristici, grazie anche all’uso fondamentale e sistematico delle bagpipes, dal secondo album in poi. Le prove migliori sono quelle degli anni ’70: “The Old Woman’s Dance” (il loro secondo lavoro), “The Tannahill Weavers” e “IV” sono dischi trascinanti, vari e vitali. Al girare degli anni ’80, il gruppo sembra dapprima smarrire la direzione, in cerca di un pubblico più ampio e meno specializzato, per poi assestarsi su modi espressivi più pacati e di maniera, per un verso o per l’altro non distanti dal modo di far musica di Silly Wizard e Ossian.

Pressoché inutile cercare in cd i titoli degli Ossian e quelli ricordati dei Tannahill Weavers.

Quanto al resto della scena scozzese degli anni ‘70/’80, si deve dar conto innanzitutto della Battlefield Band, più eterogenea nelle interpretazioni e nella scelta del repertorio; la Battlefield è la prima delle grandi band a introdurre la bagpipe in un gruppo di revival e ad usare le tastiere elettroniche in modo sistematico. I lavori migliori sono quelli a cavallo del 1980, “At The Front”, “Stand Easy” e “Home Is Where The Van Is”, comunque mai ripubblicati in cd.

Tra gli altri nomi, val la pena ricordare gli Alba, di cui fanno parte il talentuoso piper Alan MacLeod, al tempo ragazzo prodigio, e il violinista Mike Ward: entrambi passano quasi subito ai Tannahill Weavers. Gli intenti e gli esiti della band sono non a caso del tutto analoghi a quelli dei Tannahills, ma con minor grazia e maturità. Degli Alba, autori di un solo omonimo album, fa parte anche il già ricordato Tony Cuffe, che poco dopo – al volgere degli anni ’80 – entra nei Jock Tamson’s Bairns, un ensemble autore di due album acclamati dalla critica (Richard Thompson li saluta in modo entusiastico). Si tratta in sostanza di una cèilidh band più cantato, dall’impianto molto tradizionalista; una formula che mostra comunque presto la corda. Curiosa l’etimologia del nome, una locuzione scozzese dal significato di “uomini qualunque”, o se si preferisce “il signor Rossi”.

Gli anni ’80 vedono in effetti una certa vivacità nella scena scozzese, da cui emergono proposte e gruppi originali ed interessanti, dagli Easy Club, fondati da due membri dei Jock Tamson’s Bairn, con l’intento dichiarato di “esplorare nuove possibilità nella musica scozzese, portandovi influenze di musiche più moderne, come il jazz o il pop degli inizi”. I risultati si vedono in tre album, davvero godibili, curiosi, originali e diversi tra loro (“Skirlie Beat” è il migliore dei tre); per qualche anno la band gira intensivamente l’Europa, destando interesse e consenso, per poi sciogliersi, esausta.

Intenti simili sono quelli che muovono la House Band di Ged Foley (poi coi Patrick Street di Andy Irvine): unire la musica scozzese con jazz, world music, country, pop e insomma ogni sorta di contaminazione. Attivi dalla metà degli anni ’80 al 2000, hanno pubblicato otto album, tra i quali almeno i primi due, “The House Band” e soprattutto “Pacific” meritano senz’altro l’ascolto.

La più popolare band in Scozia è però quella dei Runrig (Run Rig fino al 1979) la cui storia continua tuttora, contando su un seguito fedele e successo pressoché immutato anche aldilà dei patri confini. Sorti nel ’73 come band folk-rock gaelica, registra i primi due lavori solo tra il ’78 e il ’79; “Play Gaelic” (per l’appunto cantato completamente in gaelico) e “The Highland Connection” sono pacati e decisamente gradevoli, pure se non particolarmente originali. Con “Recovery” e “Heartland” inizia il momento di grazia del gruppo: salgono volume, intensità ed enfasi delle esecuzioni (più o meno equamente divise tra traditionals e brani originali in stile), la popolarità pure, complici alcuni concerti come spalla degli U2. La band firma per la Chrysalis e il successo si allarga ben oltre i confini scozzesi, successo che in patria assume i connotati di fenomeno di costume, anche per le posizioni indipendentiste apertamente espresse: i concerti diventano manifestazioni politiche e momento di espressione di identità collettiva. L’album successivo, “The Cutter And The Clan” (siamo nell’85) è una conferma del loro stato di grazia; certo, la proposta non è particolarmente originale, di folk ci sono poco più che le suggestioni, ma intanto è servita da modello (mai dichiarato però evidentissimo) ai Big Country di Stuart Adamson. Gli album e la storia successiva sono in sostanza maniera, né il pubblico chiede altro, assicurando alla band posizioni in classifica alte e costanti (“The Big Wheel” nel ’91 raggiunge i vertici delle vendite in tutta la Gran Bretagna). Qualche cambio di formazione (il canadese Bruce Guthro rimpiazza lo storico cantante Donnie Munro, entrato in politica), uscite discografiche più rarefatte (su tutte, il bel “The Stamping Ground” del 2001, che riporta la band su territori più folk), una grande celebrazione live per i quaranta anni di carriera (in dvd e cd) accompagnano i Runrig sino ad oggi, tra l’immutato affetto dei loro fans.

Altre band negli anni ’70 seguono la strada dell’elettrificazione più o meno moderata, ma con molta minor fortuna commerciale, come i New Celeste, con un interessante tentativo di fondere tradizione scozzese, rock e jazz. E per la verità, la prima vera band di scottish music, la J.S.D. Band, formata all’estremo limitare degli anni ’60 e poi attiva per tre album lungo qualche anno, si muove in direzioni analoghe. Non che manchino un certo seguito e un discreto successo (la band registra anche per John Peel e partecipa all’Old Grey Whistle Test), ma la proposta non attecchisce granché e il gruppo si scioglie senza lasciare grandi eredità (e grandi ricordi).

L’altro grande fenomeno commerciale della musica scozzese, emerso nella seconda metà degli anni ‘80, sono i Capercaillie di Manus Lunny e Karen Matheson, vocalist dalla forte personalità e dalle doti interpretative non comuni, con una timbrica purissima paragonabile a quella di Jacqui McShee e Kate Bush. Formatisi all’inizio degli anni ’80, realizzano la prima incisione, “Cascade”, nell’84; ma è solo nell’87 che, dopo alcuni cambi di formazione, arrivano alla maturità, pubblicando il loro secondo lavoro: “Crosswinds”. Il risultato è miracoloso e sorprende critica e pubblico: in effetti si tratta probabilmente del più bel disco di revival scozzese, suggestivo ed evocativo. Certe soluzioni vagamente jazzate, la levità degli arrangiamenti, la vocalità raffinata fanno paragonare i Capercaillie ai Clannad, ma l’alternanza tra songs e ballads (tutte cantate in gaelico), con un uso essenziale e moderatissimo dell’elettrificazione (basso e tastiere) fanno semmai propendere per una versione aggiornata ed originale della lezione dei Silly Wizard. Strumentalmente, “Crosswinds” mostra una buona band, coesa, agile, lieve ed elegante, tradizionale eppur attuale e moderna; su tutto spicca però la voce di Karen Matheson, eterea ed affascinante, vero segno distintivo del gruppo. I lavori successivi (“Sidewaulk” e la colonna sonora di un documentario tv, “The Blood Is Strong”) confermano il successo ed il valore del gruppo. Ma la popolarità e il desiderio di non restare legati al cliché spingono i Capercaillie ad accelerare sulla strada della modernizzazione: il basso si fa più pulsante, quasi funky; i brani sono cantati anche in inglese, lo spazio delle tastiere si allarga e gli arrangiamenti occhieggiano alla musica più di consumo. Dapprima la formula funziona: “Delirium” è una prova matura, che conquista le classifiche (anche in Italia, grazie al brano “Breisleach”, usato nello spot pubblicitario di una marca di whisky), ma poi il gruppo calca la mano, arrivando a ritmi e sonorità disco e il consenso si trasforma in disappunto. Una retromarcia porta ad un parziale ritorno alle origini con la produzione di una serie di album di buon livello anche se alla fine un po’ ripetitivi, per una carriera ancora in essere.

Migliori sono gli esiti della carriera solista di Karen Matheson: la sua prima prova, “The Dreaming Sea”, e la terza, “Downriver” (cui collabora Dónal Lunny) sono davvero interessanti.

 

ALAN STIVELL E IL PANCELTISMO

“Musica celtica” è una locuzione di vastissima diffusione e grande successo, prima di tutto per il suo fascino e le suggestioni che evoca, ma anche per la sua genericità che permette di indicare un po’ tutto quel che viene prodotto nell’ambito del folk revival britannico, Inghilterra esclusa (e a volte, ovviamente in modo erroneo, inclusa). Una formula di comodo che consente l’identificazione di un genere di cui dare una precisa definizione semplice non è, come abbiamo visto. Ma è un fatto che indicare come “artisti di musica celtica” indifferentemente tanto i Clannad quanto i Runrig non serve a granché, e semmai confonde più di quanto chiarisca.

Eppure un musicista per il quale l’etichetta “musica celtica” calza a pennello e chiarisce alla perfezione il genere musicale interpretato, tanto da non esisterne una migliore, c’è, ed è Alan Stivell. Cantore, o forse piuttosto creatore stesso del panceltismo, è una figura di assoluto rilievo e riferimento della scena folk: è il padre riconosciuto di quel che dagli anni ’70 viene chiamato “il rinascimento celtico”, il collante che tiene insieme e dà senso all’intera scena del folk revival globalmente intesa.

La sua storia è nota: bretone (il suo vero cognome, Cochevelou, è la maldestra trascrizione francese del cognome originale di famiglia, Kozh Stivellou, che quindi Alan in parte recupera nel nome d’arte), ragazzo prodigio, si appassiona alla musica grazie al lavoro di recupero del padre Jord dell’antica cultura musicale bretone, soprattutto con la ricostruzione dell’arpa celtica, strumento perduto da secoli.

A 11 anni si esibisce all’Olympia, a 14 è già leader di uno dei più importanti bagad, caratteristica orchestra bretone di fiati tradizionali. Dopo una prima scolastica incisione del 1963, per tutti gli anni ’60 si esibisce in tour e matura il proprio stile e le proprie convinzioni culturali e politiche: convinto sostenitore dell’indipendenza della Bretagna, fautore della rinascita e dell’unione dei popoli celtici, quel che in sostanza vagheggia Stivell è una rinascita culturale dell’Occidente (se non ingenuamente dell’umanità intera) partendo dalle radici antiche. Il messaggio è potente e attecchisce, meglio divampa ovunque. La musica fa il resto: sonorità, ritmi, melodie mai sentite; Stivell reinventa letteralmente la musica folk, mescolando musiche bretoni, irlandesi, scozzesi e inglesi interpretate indifferentemente in modo acustico, elettrico ed elettroacustico con strumenti di tutte le origini: è un progressive folk seconda la definizione che lo stesso Stivell ne dà nel retro di copertina de “A L’Olympia”. E i dischi, almeno sino al 1975, sono tutti capolavori: il meditativo “Reflets”; il delicato e suggestivo “Renaissance De La Harpe Celtique”; il trionfale live “A L’Olympia”, il suo capolavoro; il potente e variegato “Chemins De Terre”; l’altro live “In Dublin”, con l’emozionante manifesto “Delivrance”; l’austero e tradizionale “E Langonned”, dedicato interamente alla tradizione bretone. Poi la qualità cala, forse inevitabilmente. Il messaggio si fa più radicale, le istanze storiche e filosofiche si fanno più pressanti e man mano che sale il tono del discorso politico, scema l’interesse dei lavori; sino al 1980, anno che vede la pubblicazione della tanto agognata e promessa “Symphonie Celtique” che si rivela però, tra alcuni buoni sprazzi, anche discretamente piena di noia e di pretenziosità. Il nuovo decennio mostra le ferite della disillusione; ancora un paio di album, discreti o poco più, “Terre Des Vivants” e “Légende”, che già nei titoli mostrano lo stato delle cose: la rivoluzione celtica non ha avuto luogo, e gli ideali svaporano in vagheggiamenti utopici che danno il la alla montante inconsistenza culturale e musicale della new age. Segue un silenzio prolungato, rotto solo a metà decennio da un album tanto prolisso quanto inutile, dedicato alle arpe. Sono gli anni ’90 a vedere il ritorno alle scene, con album pericolosamente colorati di new age (“The Mist Of Avalon”) o di riletture non disprezzabili del suo repertorio classico (“Again”) e di quello tradizionale (“Brian Boru”), ma che proprio non reggono il confronto con i lavori di un tempo. E quindi, nel nuovo millennio, una nuova svolta i cui orizzonti sono una world music in salsa celtica, tra ritmi arabi o afro, campionamenti, collaborazioni inusitate e un po’ forzate, con quanto di scontatamente politico vogliono significare (“1 Douar”, “Back To Breizh”, “Emerald”); album che semmai mostrano come Stivell, una volta innovatore e trascinatore, ora arranchi al traino di nuove mode.

La sua importanza resta comunque capitale: dai Chieftains ai Fairport Convention, passando per Angelo Branduardi (che lo chiama a collaborare al suo “Cercando l’oro”), per tutti Alan Stivell resta un venerato maestro, un esempio e un riferimento.

Sulla sua scorta, la prima metà degli anni ’70 vede un proliferare di band bretoni, tutte però lontane anni luce dal modello: Tri Yann, Ar Skloferien, Sonerien Du, Gwendal (che proponevano una interessante commistione di musica bretone e jazz) sono solo i nomi più famosi. Il senso profondo del messaggio di Stivell stenta però ad esser colto: in Italia una certa fama la godono i Lyonesse, gruppo franco-svizzero ospite fisso delle feste di sinistra, autore di tre album altalenanti, con molti buoni momenti ma spesso anche prolissi e irritanti, e comunque oggi irrimediabilmente datati (e certo di non facilissima reperibilità). Lo stesso chitarrista di Stivell, Dan Ar Bras (poi Braz), lasciato il titolare si dedica ad una carriera solista; l’esordio “Douar Nevez”, un concept sulla mitologica e perduta città di Ys, è col botto, ma il resto si rivela deludente. In mezzo, una partecipazione ad una delle tante incarnazioni dei Fairport Convention (per l’occasione solo Fairport) che frutta il disco peggiore della loro onoratissima carriera, “Gottle O’Geer”.

Su un livello ben più alto si colloca Robin Williamson che lasciata la Incredible String Band, si dedica all’arpa e a studi e suoni intrisi di misticismo; la sua carriera solista è ondivaga e imprevedibile, in linea col personaggio del resto, ma che produce almeno un paio di titoli da ricordare, “A Glint At The Kindling” con la sua Merry Band e “Songs Of Love And Parting”, per voce, arpa e poco altro, secondo un modello di bardo che Robin ama interpretare.

Stivell è all’origine anche di un altro fenomeno: il revival del folk francese, il che è a ben pensarci paradossale. La figura di riferimento è infatti un altro musicista della corte di Stivell, Gabriel Yacoub che stanco di suonare musica bretone, decide di mettersi in proprio per dedicarsi al recupero della tradizione francese. Con la compagna Marie Sauvet dapprima realizza un bell’album di traditionals, “Pierre De Grenoble”, per poi dare vita ad una formazione, i Malicorne, che avrà vasto seguito in Francia e una buona popolarità anche in Italia, nel resto d’Europa e in Canada. Dal ’74 al ’79 i Malicorne realizzano una bella serie di lavori, su tutti “Almanach” e “L’Extraordinaire Tour De France D’Adélard Rousseau”, prima di tentare una via alla modernizzazione con un allargamento del gruppo (cui fa parte nel buon “Le Bestiaire” anche l’ex Gryphon Brian Gulland) e sonorità decisamente rock, operazione che si rivela però disastrosa e porta allo scioglimento della band. Intanto, altri gruppi si sono affacciati sulla scena del folk revival, ma con scarsa fortuna. Tra tutti, i più celebri restano i La Bamboche e i Melusine.

 

ALTRE NAZIONI

L’ultima delle tre nazioni celtiche britanniche è il Galles, che pur godendo di ampia autonomia culturale ed essendo l’unica nella quale la lingua corrente sia quella originale celtica, non partecipa di fatto al movimento del folk revival. Il nome più celebre è quello degli Ar Log, molto caratteristici, quasi campestri, autori di alcuni piacevoli album tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80; i migliori sono “Ar Log 3” e “Meillionen”, dedicato alla musica da ballo. Molto più vicini al modello del revival irlandese e delle cèilidh band sono i Cílmeri, autori di due album tra l’80 e l’82, mentre gli Swansea Jack, autori di un solo album, omonimo, nel’ 78, erano più vicini al folk rock inglese, con chiare influenze dell’Albion Band di Ashley Hutchings. Ma degli ultimi due si è quasi persa la memoria, e un motivo ci sarà…

E infine, qualche parola su un altro paese celtico, normalmente trascurato se non proprio ignorato: la Galizia spagnola. La terra di Santiago di Compostela, l’estremo lembo nord occidentale della Penisola Iberica, è un paese di lontanissime origini celtiche; il nome stesso proviene dalla radice che ha dato il nome ai Galli. Benché l’originale lingua celtica galiziana sia sparita circa cinquecento anni fa e non ne resti poi grande traccia nella lingua gallega, i Galiziani sono molto fieri delle loro origini celtiche; questo nonostante il fatto che il gallego sia ormai una lingua via via relegata alle zone più rurali o quantomeno non metropolitane della regione (fenomeno comune a tutte le lingue e i dialetti tradizionali). Anche la Galizia ha un piccolo ruolo nel fenomeno del revival celtico. Gruppi di folk revival sono numerosi, e almeno un paio di artisti sono assurti ad una qualche popolarità su scala più vasta.

Il primo nome è quello dei Milladoiro, ensemble di valore autore di numerosi album (il più godibile è il live “As Fadas De Estraño Nome”), davvero gradevole, originale e di qualità. A portarli alla ribalta è stato il genio di Paddy Moloney dei Chieftains, che nelle sue curiose ed instancabili esplorazioni musicali, li ha conosciuti, prodotti e portati con sé come opening act durante gli anni ’80, fino a farli collaborare in un paio di lavori dei Chieftains, il live “A Chieftains Celebration” registrato a Dublino per le celebrazioni del millenario della città (concerto al quale – consentitemi una nota personale – ero presente tra il pubblico, ed è stata una esperienza indimenticabile e travolgente) e poi il bellissimo “Santiago”, dedicato per l’appunto all’esplorazione delle radici celtiche della Galizia e le analogie della musica popolare del mondo latino con quella celtica.

L’altro nome, sempre legato ai Chieftains, è quello del piper Carlos Nuñez, che pure ha collaborato al citato “Santiago” e poi autore di numerosi lavori ugualmente dedicati all’esplorazione dei rapporti tra musica galiziana e le altre musiche del mondo celtico, su tutti va ricordato almeno “Brotherhood Of Stars” (del 1997).

 

PER CONCLUDERE…

Come si è visto, questa lunga rilettura ha spesso sforato i limiti temporali programmaticamente stabiliti, per l’ovvia ragione che molti artisti sono ancora in attività. Ma non sono gli ultimi dinosauri: la scena revival è attiva e vivace, popolata da numerosi artisti e animata da associazioni, festival, fanzines e siti. Certo, se si escludono i Mumford & Sons, non ci sono nomi da classifica, (e del resto l’ultimo album della band sembra allontanarsi dalle tipiche sonorità ed atmosfere del folk rock), e le influenze del folk revival su altri artisti, quando ci sono, sono sporadiche ed occasionali. Del resto, la scena musicale è parecchio cambiata negli ultimi quaranta anni…

Come concludere dunque questa lunga cavalcata? Le risposte alle domande iniziali le darà ciascun lettore: se conosce almeno in parte questi artisti e questi album, se la lettura glieli ha fatti tornare alla memoria, saprà dire da solo quanto siano stati importanti; se invece ha solo qualche conoscenza (magari anche nessuna) e qualche curiosità, può darsi sia mosso a curiosità per approfondirle. La bellezza dei nostri tempi sta anche nel fatto che ciò che sino a pochi anni fa sarebbe stato inaccessibile o assai costoso e complicato conoscere, ora è a portata di mouse; con un minimo (davvero minimo) di pazienza e di tempo, almeno qualcosa di tutto quel che è stato citato è reperibile ed ascoltabile (sì, in YouTube c’è persino un brano degli Swansea Jack…).

E la conservazione della memoria è una cosa fondamentale per la nostra cultura. Talvolta riserva persino sorprese piacevoli ed inaspettate: nel caso del folk, esse sono garantite. Credetemi.

 

… O PER INIZIARE?

Gli appassionati del genere non hanno bisogno di consigli; chi approccia il genere, o lo conosce superficialmente sì. I nomi e i titoli analizzati sono tanti, orientarsi non è semplice, ma non lo è nemmeno dare consigli: tante le variabili, diversissimi i gusti, in primis quello di colui che stende la lista e ciascuno farebbe la sua... Suggerire un titolo piuttosto che un altro, includere o escludere un artista, presta il fianco a querelle infinite, né vale richiamare il testo dell’articolo che pure ha cercato di spiegare importanza, caratteristiche e lavori migliori dei vari artisti. Ma insomma, se uno chiede “da dove parto?” una risposta ha pur il diritto di averla, quindi tanto vale mettere giù un po’ di titoli e spiegare come li si è scelti.

Il numero intanto: dieci sono pochi, non perché li si debba avere tutti, ma perché stili e generi sono tanti; di più, sono troppi, perché altrimenti si torna al punto di partenza. Non se ne esce: facciamo quindici, un titolo (massimo due) per ciascun artista fondamentale, e pazienza se poi qualcuno preferisce un titolo ad un altro: il mondo è bello perché è vario e viviamo in un paese libero. Da parte mia, ho cercato di includere gli artisti più famosi coi loro titoli comunemente considerati fondamentali per una ragione o per l’altra, e comunque facilmente reperibili (inutile consigliare i Tannahill Weavers se i titoli più belli sono irreperibili in cd), ma resta una lista orientativa, criticabile, emendabile (i commenti servono anche a questo) e – certo – anche un po’ personale. Dopotutto, la gente dà buoni consigli se non può dare il cattivo esempio.

01.    Incredible String Band – “The Beautiful Hangman’s Daughter”
02.    Pentangle – “Sweet Child” o “Basket Of Light”
03.    Fairport Convention – “Liege and Lief”
04.    Steeleye Span – “Please To See The King” (ma anche “Below The Salt”)
05.    Shirley Collins & the Albion Country Band – “No Roses”
06.    “Morris On”
07.    The Chieftains – “5” (o “Chieftains Live”)
08.    Planxty – “Planxty” (o “After The Break”)
09.    Andy Irvine & Paul Brady – “Andy Irvine Paul Brady”
10.    The Bothy Band – “Old Hag You Have Killed Me” (ma anche “Afterhours”)
11.    De Danann – “The Star Spangled Molly”
12.    Clannad – “Dúlamán”
13.    Silly Wizard – “So Many Partings”
14.    Capercaillie – “Crosswinds”
15.    Alan Stivell – “A L’Olympia” (o “Chemins De Terre”)
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