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Francesco Di Giacomo, l'ultimo concerto

Francesco Di Giacomo
27 febbraio 2014
Palazzo Rospigliosi - Zagarolo (Roma)


L’ultimo concerto di Francesco Di Giacomo ha il sapore amaro dell’impotenza, veste di pungente vento invernale, è intriso della consapevolezza di esserci, nonostante i tempi ristretti imposti dal lavoro, gli impegni incalzanti della famiglia, le scadenze orarie dei mezzi di trasporto, il dolore sommerso degli astanti. L’ultimo concerto di Francesco si è svolto il 27 febbraio 2014, presso la sede di Palazzo Rospigliosi, a Zagarolo.
Sebbene protagonista assoluto, Francesco, stavolta, non si propone in veste di cantante, ma di mero spettatore.
Francesco ascolta la voce dei presenti che brindano in suo ricordo, pronunciando a gran voce il suo nome. Francesco percepisce anche chi lo sussurra rispettosamente, con timore quasi religioso, o chi, intimamente commosso, si limita a pensarlo, senza nulla proferire.


Sono giunto a Zagarolo con il treno regionale proveniente da Roma Termini. Arrivato a destinazione, ho avuto difficoltà ad individuare la navetta che mi avrebbe dovuto portare a Palazzo Rospigliosi, ove in luogo di un funerale, è stato organizzato un brindisi.

Scusa, è questa la navetta per Zagarolo paese?” chiedo ad un ventenne fermo vicino ad un piccolo bus.

No, non è questa. La sto cercando anche io.

Sei qui per Francesco, Francesco di Giacomo?”, gli domando quasi immediatamente, facendo poche previsioni su una risposta che, non so per quale motivo, do praticamente per scontata.

Chi?

Uff….”, penso scocciato tra me e me. Lo saluto e mi allontano, diretto al parcheggio.

Individuo un uomo sulla sessantina, con barba e capelli bianchi. Con lui non posso sbagliare di certo. Gli chiedo del brindisi a Francesco e lui, con quella affabilità genuina della provincia, mi fornisce indicazioni sicure e abbondanti. Poi ci pensa su e mi dice che il figlio doveva giungere con lo stesso treno preso da me. “Ma non è arrivato, forse perché ha preso quello successivo. Quindi, piuttosto che aspettarlo inutilmente qui, ti accompagno io”.

Il tragitto non è così breve come ipotizzavo e io penso al figlio che magari è nel frattempo giunto e sta aspettando un tantino scocciato. Sono in imbarazzo e glielo dico. Lui sorride e mi assicura di non preoccuparmi: “Sono amico di Francesco e di Antonella. Non potevo proprio lasciarti alla stazione”.

Antonella è la moglie di Francesco. Non la conosco e non l’ho neanche mai vista. Confesso a me stesso di pensare a lei soltanto in questo momento, per la prima volta da quando è morto il marito. Che egoisti che siamo! Anche nei momenti più drammatici, ci ancoriamo con forza ad una visione superficiale delle cose. Basta cambiare un poco la prospettiva e si apre un mondo di cui prima ignoravamo l’esistenza. Appena ho appreso della sua morte, non ho pensato a lui come ad un uomo, ma come ad un musicista. Ho riflettuto sulla devastazione che la sua scomparsa avrebbe portato ad un gruppo come il Banco, agli amici, ai colleghi musicisti, alle migliaia di fans in tutto il mondo. Eppure, prima di tutto, è scomparso un uomo, che lascia non (solo) una band, i fans, i colleghi artisti, ma una moglie, dei parenti, molti amici. Scambiamo due chiacchiere su di lui e io noto che il mio benevolo trasportatore ne parla al presente, come se fosse vivo. Ci provo pure io ma non mi viene e mi correggo ogni volta. Sono impacciato.

Arriviamo a destinazione e lo saluto, stringendogli la mano. Lui mi sorride sereno, augurandomi di passare un buon pomeriggio. Mi dice anche il suo nome ma io lo dimentico subito. A voler dare un’interpretazione mistico-religiosa, verrebbe da dire che in quel passaggio, in quel sorriso, in quella stretta di mano, c'era certamente lo zampino di Francesco. "Sarebbe bello, se fosse così…", penso.

Quando scendo dall’auto, proprio di fronte al cortile del palazzo, sono frastornato dal numero così elevato di persone. Scorgo i membri dell’attuale formazione del Banco (Vittorio Nocenzi, Rodolfo Maltese, Tiziano Ricci, Maurizio Masi, Filippo Marcheggiani, Alessandro Papotto), ma anche alcuni musicisti del passato (Gianni Nocenzi, Pierluigi Calderoni, Gabriel Amato). Sembrano consumati dal di dentro, tutti scavati in volto. Vittorio Nocenzi non sembra neanche lui. Portano tutti occhiali scuri, per nascondere sei giorni di dolore ininterrotto che forse, adesso, di fronte ai tanti presenti, dopo essere stato imprigionato nell’intimo, viene finalmente sdoganato, proiettato fuori, seppur gradualmente, lentamente. Vedo anche tanti volti noti della musica italiana, quelli di musicisti storici come Aldo Tagliapietra (Le Orme), Lino Vairetti (Osanna), Franz Di Cioccio, Patrick Djivas e Franco Mussida (tutti della PFM), Jimmy Spitaleri (Metamorfosi, Le Orme), o più recenti come Mario Pio Mancini (Indaco, Ypsos, Nu Indaco), Luca Barberini (Indaco), Giovanni Tommasi e Bruno Vegliante (Periferia del Mondo), Andrea Satta (Tetes de Bois).

Cerco nuovamente di individuare Alessandro Papotto, l’unico membro del gruppo con cui sono in rapporti di amicizia. È entrato in formazione ormai 15 anni fa ed è l’ultimo di una serie di ingressi blasonati (il bassista Tiziano Ricci, il batterista Maurizio Masi e il chitarrista Filippo Marcheggiani), che hanno stabilizzato la nuova formazione a sei elementi. Lo chiamo al telefono, ci troviamo, ci abbracciamo: cappello in testa, occhiali scuri, barba lunga. È scavato anche lui, come gli altri. E come gli altri, si vede che ha tenuto dentro e ancora tiene.
Chiacchieriamo insieme a pochi altri. “Cinque anni fa, proprio in quella sala”, mi dice indicando un locale di palazzo Rospigliosi, “si sono sposati Francesco e Antonella. Io suonavo per loro”.

Gli chiedo di indicarmi Antonella, alla quale ripenso, non senza provare lievi sensi di colpa per il mio interesse destatosi soltanto pochi minuti prima.

Eccola, con il cappotto rosso. La vedi?
La vedo: serena, sorridente, rassicurante. È una visione che mi rincuora un poco, ma non oso avvicinarmi. Che diritto ho, io, di invadere la sua intimità in maniera così irruenta? Che senso avrebbe farle vedere un volto e riferirle parole di conforto che poi, come darle torto, dimenticherà in fretta?

Propongo ad Alessandro un caffè, sperando che non si accorga che in realtà voglio solo distrarlo un poco, offrigli il pretesto di indirizzarlo lontano dal centro di interessi del pomeriggio, la sala dove si trova Francesco, Antonella, il Banco, gli amici, i fans.
Se si può essere contenti in un momento del genere”, dico con voce non molto convinta, quasi timoroso di essere preso per un folle o un insensibile, “sono contento che la morte di Francesco abbia avuto la giusta visibilità, nel consesso internazionale di Sanremo. Non come altri personaggi, la cui scomparsa è rimasta anonima. Come Roberto Ciotti che alcuni neanche sanno che è morto”.
Alessandro mi guarda negli occhi: lo so che non mi prende per un matto, come so anche che approva quello che ho detto.
Tuttavia”, lo precedo, “non si può essere contenti in un momento del genere”.
Lui sorride, manifestando ancora condivisione.

In mezzo alla folla scorgo altri volti, un collaboratore del gruppo, l’ingegnere del suono Carlo Di Filippo, il fotografo Roberto Proietto, il giornalista Marco Leodori, fondatore della rivista "Wonderous Stories". Ce ne sono altri, parecchi: ne riconosco i volti, ma faccio fatica ad associarvi un nome. Sono un po’ confuso, stordito dall’atmosfera, che è serena, ma mesta. Parlo con qualcuno che mi nomina Fabio Palmieri, chitarrista degli Ezra Winston.
"Ma tu", racconto, "lo sapevi che, appena pubblicato il primo album, "Myth Of The Chrysavides", gli Ezra Winston vennero proprio qui a Zagarolo a trovare Francesco Di Giacomo per chiedergli un parere? Ma lui era in fissa con il pop, in quel periodo: loro gli parlavano di prog e lui rispondeva citando cantautori come Fabio Concato o, ancor di più, Lucio Dalla, del quale amava "Attenti al lupo", allora in classifica".

Ridiamo insieme, divertiti, scansando per una frazione di secondo quella tristezza interiore che pervade tutta la comunità.

E’ il momento di un veloce scambio di parole con l’ospite del pomeriggio. Mi sgancio da tutti i presenti per andare da Francesco. Passo vicino alla bara, la guardo, la sfioro, la tocco.

Ti ho conosciuto per la prima volta il 22 aprile del 1993. Il Banco si esibiva dal vivo al “Castello” di Roma. Di supporto c’era Tony Carnevale, nel corso della cui performance, sia te, sia Rodolfo, eravate saliti sul palco. Finito il concerto, ti intervistai per la citata rivista "Wonderous Stories", all’epoca ancora fanzine. Io poco più che ventenne, tu già un mito per me: io emozionato, tu disponibile; io apprensivo, tu sereno; io impacciato, tu sicuro.
Dopo pochi minuti, mi mettesti a mio completo agio. Mi ricordo l’ultima domanda di quella intervista, fatta da un giovane più vicino alla figura dell’appassionato che a quella del giornalista: “Hai qualcosa da dire ai nostri lettori?”
“Mah, io non so se ho veramente qualcosa da dire. Beh si, una cosa c’è… Io vorrei che le persone si scegliessero da sole la musica da ascoltare e che non la scegliessero gli altri per loro….Ecco cosa vorrei. Ciao”.
Ciao Francesco. E grazie.

Gianluca






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